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Allonsanfàn
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Quel giorno, ad Auschwitz

Sono passati 80 anni dal 27 gennaio 1945, quando i soldati sovietici dell’Armata Rossa entrarono nel campo di sterminio di Auschwitz, in Polonia, liberando i superstiti e portando alla luce gli orrori del genocidio nazista.

A ricordo delle vittime dell’Olocausto, il 27 gennaio è stato dichiarato (nel 2000 in Italia, nel 2005 dalle Nazioni Unite) Giorno della Memoria.

Ho visitato il campo di Auschwitz dieci anni fa, nel 2015. Qui il racconto di quella giornata (pubblicato la prima volta su monicatriglia.it il 29 luglio 2015). Lo ripropongo in occasione dell’80° anniversario. (m.t.)

 

Auschwitz giorno memoria
Bundesarchiv B 285 Bild-04413, KZ Auschwitz, Einfahrt.jpg by Stanislaw Mucha is licensed under CC BY-SA 3.0.

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Ewa è una ragazza polacca bionda e sottile, ha una sciarpa leggera al collo e lì ha agganciato un microfono che permetterà a noi che la seguiamo di non perdere neppure una delle sue parole.

Ewa è la guida che accompagna me e un altro piccolo gruppo di italiani a visitare i campi di Auschwitz e Birkenau, poco più di 50 chilometri da Cracovia, dove almeno una volta nella vita bisogna andare.

È un dovere essere qui, dovrebbero venirci tutti, io ho aspettato troppi anni mi dico mentre entro. Quando passo sotto la scritta Arbeit macht frei sento fortissima la tentazione di girarmi e tornare indietro. È brutto dirlo ma vorrei proprio andarmene.

Invece vado avanti.

Ewa macina passi e spiegazioni a noi dieci italiani che non ci siamo mai visti prima e mai probabilmente ci incontreremo più, e che poco per volta cominciamo a stare più vicini – se rallenta uno rallentano gli altri, se si ferma una si fermano gli altri – e ci guardiamo smarriti, quasi imbarazzati dal malessere che ci sta crescendo dentro.

Ewa cammina e snocciola date e numeri.

Auschwitz I, operativo nel maggio del 1940; Auschwitz II, anche chiamato Auschwitz-Birkenau, operativo all’inizio del 1942; Auschwitz III o Auschwitz-Monowitz operativo nell’ottobre del 1942.

Prigionieri: dall’Ungheria 426.000; dalla Polonia 300.000; dalla Francia 69.000; dall’Olanda 60.000; dalla Grecia 55.000; dalla Boemia e dalla Moravia 46.000; dalla Slovacchia 27.000; dal Belgio 25.000; dalla Yugoslavia 10.000; dall’Italia 7.500; dalla Norvegia 690; da altri posti inclusi altri campi di concentramento 34.000.

Condizioni di vita (vita?): impiccagioni, fucilazioni, torture, malattie, fame, freddo, esperimenti medici sui bambini gemelli, camere a gas, camere dove si veniva rinchiusi senza cibo e acqua fino alla morte, camere murate dove si moriva asfissiati, camere dove si era costretti a dormire in piedi e poi ad andare al lavoro.

Auschwitz giorno della memoria

Ewa parla e io mi accorgo che non ci guarda mai negli occhi. Ma proprio mai.

Neppure quando riprende uno di noi, che tenta di fotografare, là dove è vietato, la teca enorme che conserva i capelli di tanti mandati a morire appena arrivati. Lo riprende e quasi gli grida: «Cosa te ne fai di questa foto eh? Dimmi, la appendi in camera da letto?». Sì, lei gli grida contro ma non lo guarda in faccia. Grida ma guarda da un’altra parte, e fissa sopra le nostre teste un punto lontano.

Ewa macina passi e spiegazioni e non ci guarda mai.

E allora, nel quarto d’ora di pausa che ci è concesso mentre passiamo da Auschwitz 1 a Auschwitz 2 Birkenau, io mi avvicino e le chiedo perché.

«Ho paura a guardare negli occhi le persone che accompagno nei campi» mi risponde.

«Capita che qualcuno, a volte, si metta a piangere e, quando vedo qualcuno piangere, non ce la faccio, piango anch’io. Ma non posso, non devo. Sono 5 anni che vengo qui tutte le settimane, quasi tutti i giorni, ora smetto per un po’, forse per sempre. Non lo volevo fare questo lavoro ma mi è venuto naturale, sono nipote di un uomo che ad Auschwitz è stato imprigionato ed è riuscito a uscire vivo. Era mio nonno e non mi ha mai detto una parola, una sola parola, di quanto gli è accaduto. Da bambina gli prendevo il braccio e gli chiedevo ragione di quel numero che aveva inciso. Lui mi strattonava e se ne andava, muto. Soltanto dopo la sua morte, mia nonna ha cominciato a spiegarmi quello che oggi racconto a voi. Che è solo una piccola parte della verità, credo. E forse è meglio così. Perché possiamo leggere, guardare film, ascoltare testimonianze dei pochi sopravvissuti oggi ancora in vita, venire a visitare di persona questi luoghi. Possiamo fare tutto questo, ma non riusciremo mai a immaginare che una piccola parte della ferocia che si è consumata qui. Meglio così, credimi. Meglio così».

Ewa riprende a camminare lungo la ferrovia di Birkenau, ci fa passare accanto ai resti dei forni crematori distrutti dai tedeschi poco prima della fuga. Facciamo chilometri, lei parla a noi, che stiamo in silenzio. Fino a quando comincia il buio e la visita finisce.

Auschwitz giorno memoria

Ed è solo in questo momento, prima che ciascuno esca e risalga sull’autobus che lo riporterà a Cracovia, che Ewa si ferma e per un momento tace. Resta in silenzio. E poi: «A voi che in vacanza avete deciso, invece di divertirvi, di rivivere la peggiore pagina di storia dell’uomo io dico grazie. Quelli che non ricordano la storia sono destinati a viverla di nuovo. Se siete venuti qui, è per ricordare. Grazie».

Ci dice grazie Ewa, lei dice grazie a noi. Dice grazie a me. Io quasi non me ne accorgo, ma lei ora mi sta guardando negli occhi.

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