Mi sto ancora domandando se Nicole Kidman si sia meritata la coppa Volpi come migliore attrice all’ultimo festival del cinema di Venezia, alcuni dicono di no, ma la risposta non è facile. Credo che molti potrebbero trovarsi nella mia condizione, dopo aver visto Babygirl, il thriller erotico – così lo definiscono – della regista Halina Reijn.
Sul film, invece, i dubbi sono pochi: torna Adrian Lyne, è tutto perdonato! Perlomeno Nove settimane e 1/2 ci regalava il furbo, ruvido tormentone blues di Joe Cocker. Qui, invece, mentre i due protagonisti fanno sesso, ci tocca tutta la melassa di Father Figure di George Michael dall’inizio alla fine, roba che nemmeno nello spot di un profumo.
Kidman nel film è Romy, assertiva ceo di un’azienda che si occupa di robotica, e un po’ robot lo è anche lei, sempre perfettamente in parte, quando copula con Jacob (Antonio Banderas), suo marito, ansimando bene, roteando comme il faut gli occhi cerulei; o arriva in ufficio elegantissima, preparata sul discorsetto da fare agli investitori; oppure, mentre apparecchia la colazione per le figliolette, con improbabile grembiulino da casalinga anni Cinquanta. Ma indovinate un po’? Sotto la patina, oltre la recita, c’è invece una donna insicura, ovviamente insoddisfatta, che coltiva fantasie erotiche mai vissute e per raggiungere un vero orgasmo, guarda di nascosto video porno con contenuti che rimandano alla pedofilia.
Quando in azienda arriva un gruppo di giovani stagisti, la sua attenzione si concentra su Samuel (Harris Dickinson), e il ragazzo non ci mette molto a capire che in lei può esserci trippa per gatti, anzi, per cani, visto che l’abusata metafora sadomaso del cane al guinzaglio ci sarà più volte ammannita.
Lo spunto che avrebbe potuto permettere al film di trovare un senso, tra l’altro specie in America molto attuale, è la difficoltà di stabilire confini. Quanto si possono avvicinare due persone con gradi opposti e con distanza anagrafica potente? Quand’è che la faccenda diventa inappropriata, quasi abusante, e quando invece è libera scelta tra adulti consenzienti? Ma qui è solo accennato, annega in un mare di banalità che ammiccano a pellicole precedenti: un filo di brivido all’Attrazione fatale – quando l’amante ti piomba a sorpresa in casa – un etto di Cinquanta sfumature di grigio nelle scene di sottomissione.
Torniamo però a Kidman, l’unico elemento interessante: è chiaro per lei sia stata una grande sfida, quasi come nel 1983 per la nostra Stefania Sandrelli La chiave di Tinto Brass, anche se è curioso pensare che ai tempi la “mezza età” coraggiosa corrispondesse a 37 anni, mentre oggi, epoca di palestra compulsiva e ritocchini, a 57.
L’attrice australiana ci mostra un corpo ancora desiderabile, eppure l’audacia non è tanto spogliarsi, quanto usare come performance artistica, alla Marina Abramovich, quel corpo e quel viso che ormai dell’umano normale hanno molto poco. I suoi capelli hanno una tinta inesistente in natura, volutamente e palesemente iperbolica. La faccia su cui le iniezioni di botox hanno viaggiato in lungo e in largo – le si vede anche nel film, senza anestetico, Romy-Nicole ci è abituata e non deve perdere tempo – la rende maschera scenica ideale, da teatro kabuki versione occidentale.
Kidman ormai non è più una donna, è una bravissima attrice che s’è disegnata la faccia da sola, porcellana smaltata sulla quale farle scrivere quello che aggrada al regista. Credo la scelta non possa che essere molto consapevole, tant’è che nel film si lascia dire dalla figlia adolescente Isabel (Esther McGregor) che somiglia a “un pesce morto”; dall’amante che ha “il viso di una madre”, alla fine non c’è trattamento che tenga, l’anagrafe è spietata. Il momento di quiete dell’anima è quando, sdraiata sul divano, finalmente scomposta e stanca, “somiglia alla nonna”.
Il suo essersi donata in toto all’arte cinematografica, a rischio di apparire grottesca, quasi inquietante, la totale fusione tra sembianze della persona e del personaggio, in effetti non possono lasciare indifferenti.