A Teheran, l’hotel Libertà un tempo faceva parte della catena Hyatt, «Ci venivano molti personaggi famosi, lo sceglievano persino Romina e Al Bano, e noi andavamo ai loro concerti tutte in ghingheri, coi tacchi alti», dice Mahin (Lili Farhadpour), protagonista de Il mio giardino persiano, film di Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha. Farà sorridere gli spettatori italiani, questo rimando alla nostra coppia pop canterina, eppure è una riuscitissima pennellata di realtà sulla vita di una donna settantenne, vedova, pensionata, i figli all’estero, un mondo di ricordi legati all’Iran della sua giovinezza, così diverso da quello attuale.
Mahin abita da sola una bella casa, il pranzo con le amiche di sempre è diventato un evento raro, ognuna a rincorrere i suoi acciacchi, le ferite della vita. Si sveglia a mezzogiorno, perché non ha molto da fare, la notte fatica a dormire. Unica gioia, il suo splendido giardino, che cura con amore e che nei suoi alberi conserva il ricordo delle segrete monellerie di un tempo passato.
D’un tratto si butta, decide che è ora di cercarsi un compagno, e lo fa con intraprendenza spavalda, adocchiando al ristorante Faramarz (Esmaeel Mehrabi) un coetaneo tassista, anche lui solo, divorziato da molti anni. L’uomo, piacevolmente sorpreso da un evento che mai più si sarebbe aspettato, accetta subito di seguire Mahin a casa sua.
È molto tenero, l’incontro delle loro solitudini, di corpi insicuri, lei che dopo tanti anni torna a truccarsi, s’è appesantita – ma lui le assicura che è più bella così che quando era magra, nelle foto da ragazza – lui che non disdegna l’idea di usare la pillolina blu.
In mezzo a queste immagini delicate, intimiste, è una coltellata al petto il messaggio chiaro, politico, che ci arriva dai due registi: la negazione del desiderio cui si sono sottoposti per trent’anni Mahin e Faramarz non è caratteriale, bensì massima espressione di negazione della libertà del Regime. Ma libertà e desiderio non si possano mai spegnere, tanto che Mahin, quello stesso pomeriggio, ha aiutato una ragazza innamorata a sfuggire alle grinfie della polizia morale e la corsa di lei verso il fidanzatino da abbracciare è forse l’immagine che ha fatto rompere gli indugi alla donna, l’ha resa consapevole del suo stesso desiderio troppo a lungo tarpato.
Si perdona volentieri una certa minuzia eccessiva nel finale, spiazzante, perché anche questa, in fondo, serve a dirci che sotto a una storia dolente privata, c’è la disperazione pubblica di un intero paese.