“Avrebbero potuto chiedermi tante cose. Avrebbero potuto chiedermi un mondo! Invece quelle brave persone, che pure mi volevano bene, mi domandarono solo perché ero così grassa e se ero ancora vergine”. Tornano in mente, anche, queste parole di Liliana Segre, dopo aver visto The Brutalist, di Brady Corbet. Segre ha descritto così, scabra e insieme disperante, l’incontro con gli zii milanesi, al ritorno dal campo di sterminio di Auschwitz.
Perché The Brutalist è soprattutto un film sull’indicibile, sulle conseguenze del peso immenso, feroce, non condivisibile, dell’esperienza della Shoah: il protagonista, l’architetto ebreo ungherese László Tóth (Adrien Brody, immenso), sua moglie Erzsébet (Felicity Jones), la nipote Zsofía (Raffey Cassidy), emigrati con tempistiche diverse negli Stati Uniti, non raccontano mai a parole l’esperienza nei campi. «Non saprei da dove cominciare», risponde Tóth a una ricca signora che gli domanda della guerra. La violenza subìta vive in loro, come un morbo che nessuna medicina è in grado di curare, come per i sopravvissuti ai campi dei racconti del Premio Nobel Isaac Singer, eterni inquieti, abrasi, in allarme. Forse solo l’antidolorifico cui László è stato iniziato per via di una ferita sulla nave della migrazione lenisce per lo spazio di un sogno – o di un incubo – il suo male.
Il film sembra un biopic, ma non lo è. László il brutalista che ha studiato al Bauhaus, che in Europa era famoso e deve reinventarsi una vita negli States, è il paradigma dei molti migranti geniali che hanno costruito, letteralmente, il miglior immaginario americano, ma sono considerati corpi estranei dal mondo wasp, vissuti come un morbo necessario. Sì, ancora oggi, oggi più di ieri. L’invidia feroce per il genio, in questo caso il genio ebreo, ricorda un bel romanzo breve di Joseph Roth, La tela del ragno. Anche qui, chi non è in grado di sfiorare certe vette muore di stizza e di fastidio nei confronti di chi, con naturalezza e calma, brilla di luce propria. Quella luce va spenta.
Genio fragile, ovviamente, László viene accolto da un cugino (Alessandro Nivola) che s’è americanizzato il cognome, ha aperto una piccola ditta di mobili e ha sposato la classica bionda americana cristiana (Emma Laird). Deve disegnare per lui sedie e tavolini, ma il caso lo scaraventa di nuovo nel corpus della sua vera professione, quando viene “riconosciuto” dal magnate della Pennsylvania Harrison Van Buren (Guy Pearce), un uomo ossessionato dal ricordo della madre defunta, in vena di costruire la sua Xanadu in memoria di lei.
Ci sono echi di Quarto potere in questo film monumentale, dove torna il respiro del grande cinema coraggioso, che osa parlarci di cose alte, scomode, profonde. Osa 215 minuti divisi per capitoli, 15 minuti d’intervallo previsti scientemente, per dividere in due parti una storia in cui il crescendo d’angoscia è coerente e matematico come i progetti di László per il mausoleo di Van Buren, che finirà per internarlo, rinchiuderlo in un incubo di sottomissione – apparente – quasi come ai tempi dei campi, perché la tentazione dell’Occidente, del capitalismo cristiano, è sempre quella: schiacciare quel che non si capisce, quel che è diverso, indomabile.
Mai, infatti, la mente di Laszlo sarà schiava, mai sarà penetrabile, il corpo si può violare, la mente no.
Il brutalismo architettonico che è sua fede creativa, così essenziale, materico, senza nessuna concessione agli orpelli, è anche caratteriale. Attrae chi gli invidia questa forza e proprio per questo vorrebbe distruggerla, umiliarla, ma non ci riuscirà. C’è una scena particolarmente violenta, ambientata tra l’altro nelle nostre cave di marmo sulle Apuane, una scena necessaria, senza alcun compiacimento morboso, una scena che allo spettatore attento risulta naturale conseguenza di quel che Corbet ci mostra sin dall’inizio.
Bisogna assolutamente dire che questo film non avrebbe potuto prescindere dalla potenza espressiva di Adrien Brody, un attore di levatura altissima, che parla con accento ungherese – la madre è di origini ebraiche ungheresi – che offre allo spettatore l’ostinazione della sua creatività, l’amore per la moglie, agognata dopo una lunga separazione forzata – bellissime le scene sulla fatica di ritrovare una complicità erotica, su corpi offesi che non vogliono cedere – le cadute e le risalite.
È vero che esistono molti popoli umiliati e offesi su questa nostra Terra, ma certo il popolo ebraico è stato umiliato e offeso in ogni dove e in ogni epoca, anche questo va detto, in un periodo in cui le politiche del governo di Israele alimentano un antisemitismo pericoloso. The Brutalist mostra però che tutti gli outsider, tra i quali siamo anche noi italiani, vedi lo scalpellino anarchico Orazio (Salvatore Sansone) o il meraviglioso Gordon (Isaach de Bankolé), nero, povero, che non lascerà mai solo László, sono il vero cuore pulsante del mondo occidentale.