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Danilo Kiš, Clessidra. L’oblio e la neve della colpa

Aspettando il libreria per metà marzo la prima versione italiana di Salmo 44 (Psalm 44, 1962) nella collana Fabula di Adelphi, ho riaperto uno dei capolavori di Danilo Kiš

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Clessidra di Danilo Kiš, il romanzo uscito nel 1972 (Adelphi 1990), è formato da una serie di eccentrici documenti letterari, come se lo scrittore di Subotica cercasse di ricomporre le tessere di un mosaico individuale, famigliare ed epocale, scompigliate dopo un’esplosione oppure un crollo – magari quello di una casa di Novi Sad, popolata di malevoli ratti, nel 1942.

Ecco la struttura di Clessidra, romanzo che si rivela invece ellittico e divagante tanto più il funambolico Kiš affila la penna per incidere la carne della storia e scompone il suo discorso in alterni capitoli fatti delle memorie di un pazzo, dei lacerti di un’impassibile istruttoria, delle scene di più di un viaggio per treno o su carro, e comunque di riflessioni, sogni e incubi mescolati, dai quali si estrapolano e si stagliano, nella notte di un’Europa in guerra, i lunghi elenchi amati dallo scrittore.

Tra questi, spiccano quelli dei vivi e dei morti – per esempio una lista di ebrei perseguitati che si aggiungono agli innumerevoli personaggi appena nominati di cui si svela il destino avverso in poche secche battute -, così come l’enumerazione di oggetti e inezie, di fotografie e missive, descritte e lette quasi potessero avere sul protagonista (e sul lettore?) un insperato potere se non salvifico chiarificatorio.

Il protagonista del romanzo è un uomo maturo, E.S., già ispettore capo delle ferrovie, residente con i due figli in un villaggio nel comune di Baksa – oggi nella Contea ungherese di Baranya al confine con Croazia -, un uomo e una famiglia che abbiamo già incontrato in Giardino, Cenere  e Dolori precoci (entrambi editi da Adelphi), ma ora importa relativamente non aver letto i primi due libri di questa trilogia autobiografica dedicata al padre, nascosto dal nome Eduard Sam o dalle sole iniziali.

Qui Eduard Sam, designato burocraticamente  (o freudianamente?) come E.S., occupa la scena (l’indagine?) rispondendo compitamente e con una straniante precisione a invisibili inquisitori oppure delirando sul suo io diviso in due la cui follia è (forse) la somma lucidità, e cioè l’assunzione in sé della legge universale della morte (ciò appare invece certo).

Incontriamo dapprima quest’uomo in una baracca a fianco della casa di odiosi parenti da cui lo separano beghe commerciali, mentre scrive una lettera. Kiš, fin dall’esordio, ne estrae la figura dal buio attraverso descrizioni così minuziose e materiche di oggetti e persino di ombre, quasi si fosse affiliato all’école du regard, non fosse che per lui l’inanimato appartiene a un registro magico. Tutto il romanzo, in opposizione alla aleatorietà della vita umana, raccoglie rappresentazioni meticolose di umili cose (uno stemma di ambigua interpretazione, un lucchetto…), mentre possono essere rapidi e laconici, come iscrizioni tombali, gli accenni al destino di uomini travolti dalla crudeltà della storia, perduti (leggo dall’aletta calassiana) “nello sfondo nero e desolato, quello della persecuzione degli ebrei negli anni della seconda guerra mondiale – e di tanti altri massacri, semisommersi nell’oblio e coperti dalla neve della colpa (la neve compare più volte in queste pagine, con la stessa connotazione sinistra)”.

E.T. dalla baracca vede il cognato passargli davanti, nella neve appunto, con la gamba danneggiata e un fucile da cacciatore, prima di mettersi in viaggio e di imbattersi nello scompartimento del treno in una giovane donna, misteriosa e attraente.

E.T. si reca a Novi Sad per sgombrare una casa di qualcosa che gli appartiene – due armadi pregiati sormontati da un fregio che richiama l’intaglio in un contrabbasso e delle coperte – e comunque ogni gesto e accadimento ci conduce sul terreno friabile di una vicenda cui tocca al lettore riprendere costantemente le fila, ricostruirne la successione temporale, a volte anche con fatica, spesso con sorpresa e persino stupore, sempre con l’impressione di capire tutto e niente e di essere a un passo o lontanissimo dall’essenziale.

Eppure tutto (forse) si ricompone grazie al serrato interrogatorio poliziesco che esaurisce la vicenda dopo che leggendo l’abbiamo a poco a poco vissuta, e grazie alla riproduzione finale della lettera cui attendeva E.S. nelle prime pagine di Clessidra, ultimo dei frammenti sapientemente creati e mischiati da Kiš. Sommo scrittore del Secolo Breve, kafkiano e borgesiano e sarrautiano, forse, ma soprattutto joyciano (”Senza conoscere Ulysses, non so come avrei potuto dare forma al romanzo”, fonte: The Review of Contemporary Fiction), Kiš è consapevole di non possedere l’onniscienza degli autori del passato e di non poter chiudere narrando la totalità del mondo in un libro, ma non c’è motivo perché, in questo capolavoro, non tenti l’impresa…

Nota Danilo Kiš nasce a Subotica, città di confine nell’allora Jugoslavia e nell’attuale Serbia, il 22 febbraio 1935. Il padre è un ebreo della vicina Ungheria, la madre, Milica Dragičević, una cristiana ortodossa nata in Montenegro. Prima di stabilirsi a Belgrado, ha vissuto in Ungheria e Montenegro. Laureato in letterature comparate, è stato lettore di serbo-croato all’Università di Strasburgo dal 1963 al 1964 e di Bordeaux dal 1974 al 1976. Ha tradotto nel suo Paese i più grandi poeti francesi, russi e ungheresi. Nel 1980 gli è stata assegnata la Grand Aigle d’Or della città di Nizza e nel 1984 il premio Ivo Andrič. Danilo Kiš muore a Parigi il 15 ottobre 1989 (fonte: il sito di Gallimard). “Je ne connais personne avant lui qui aurait tenté d’aborder ce sujet immense, le destin juif sous Hitler, avec les seules armes dignes d’un poète: la maîtrise souveraine du langage”, ha scritto di lui nella prefazione francese di Sablier (Gallimard) Piotr Rawicz, uno degli scrittori amici ritratti in quella dépandance spesso struggente della Enciclopedia dei morti che è Il liuto e le cicatrici (entrambi editi Adelphi).

Il libro Clessidra di Danilo Kiš, Adelphi, collana Fabula

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