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Allonsanfàn
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Il Sublime. Che cosa insegna il canone dell’Anonimo

Immagino siano molti quelli che si rivolgono agli Antichi con affettuosa sufficienza. Un automatismo inevitabile, convinti come siamo che l’incivilimento sia un processo progressivo che l’umanità compie quasi senza avvedersene; e così considerare inferiore il passato diventa è un’ovvietà a cui non si fa più caso. Malgrado ciò qualcuno più avveduto, magari aiutato dall’età, è giunto a chiedersi se le genti che bruciavano gli Ugonotti e le streghe di Salem fossero così diverse da noi. (Detto sottovoce per la vergogna, l’università di Auschwitz insegna).

Diciamo che tra i nostri superiority complex è forse il meno insensato. I segni tangibili del progresso – giusto per fare un esempio: la vita media e la qualità della vita, le libertà e i diritti delle persone – rendono impossibile rimpiangere secoli di paura, frustate e pellagra. C’è poi un dato di fatto indiscutibile: qualsiasi ragazzino un po’ sveglio dispone di un bagaglio di informazioni che le più grandi menti del mondo antico si sognavano: quasi mi commuovo se penso allo sforzo di Aristotele per dare ordine alla Natura e spiegazione all’ignoto.

Non è sempre stato così, anzi. Marc Fumaroli ne Le api e i ragni ci offre il racconto della disputa seicentesca che vede gli Antichi contrapposti ai Moderni, e questi ultimi soccombere (sia pur momentaneamente) ai primi. Con l’avvento del Romanticismo – a giudizio di Isaiah Berlin l’evento più straordinario nella storia delle idee – il moderno e la modernità non ebbero più freni; il passato diviene nel migliore dei casi tradizione, nel peggiore vecchiume da cui liberarsi il più in fretta possibile. Anche perché, inutile negarlo, “i buoni vecchi tempi” non sono mai stati poi così buoni: l’infanzia è un’invenzione recente, l’analfabetismo regola, e la morte prematura per tifo, febbri puerperali, tubercolosi una certezza.

Sublime Anonimo
Marc Fumaroli

Ma il passato inevitabilmente ritorna. E come talvolta accade sorseggiando una tazza di tè in un pomeriggio uggioso, ci si imbatte in cose che pensavamo d’aver dimenticato: pietre d’inciampo turbano le nostre svagate convenzioni; accade così di incontrare persone vissute migliaia di anni fa e di poterle nominare con certezza, nonostante che del loro passato non restino che pochi frammenti, proprio come l’esatto contrario: abbiamo le opere ma non se ne conosce l’autore; di Saffo ad esempio sappiamo il nome e forse le umane vicende, ma dei versi che stregarono il mondo non resta quasi nulla. A testimonianza della sua gloria un epigramma attribuito a Platone recita: “Alcuni dicono che le Muse siano nove; che distratti! Guarda qua: c’è anche Saffo di Lesbo, la decima”. Il Trattato del Sublime – insieme alla Poetica di Aristotele il più importante trattato di estetica dell’antichità – ci è invece giunto quasi intatto; ma del suo autore, un raffinato intellettuale greco-romano vissuto nel I secolo d.c., non sappiamo nulla. Al punto che lo chiamiamo l’Anonimo del Sublime.

Ma il Sublime cos’è? Ecco la definizione che ne dà l’Anonimo “il Sublime trascina gli ascoltatori non alla persuasione, ma all’estasi: perché ciò che è meraviglioso s’accompagna sempre a un senso di smarrimento, e prevale su ciò che è solo convincente o grazioso, dato che la persuasione in genere è alla nostra portata, mentre esso, conferendo al discorso un potere e una forza invincibile, sovrasta qualunque ascoltatore.” Sono le prime parole del Trattato. Per comprenderle è necessario sapere che per l’Anonimo la letteratura ha un’importanza straordinaria: il suo compito è educare l’anima. Non è dunque l’ennesimo manuale di retorica, genere letterario in voga in un’epoca che teneva in altissima considerazione l’arte oratoria, tecnica suprema nell’esercizio dell’avvocatura e nella costruzione del consenso; e non appartiene neppure alla categoria delle polemiche tra eruditi.

Sublime Anonima

Questo trattato, scrive Giulio Guidorizzi curatore dell’edizione, si presenta sotto la duplice veste di indagine letteraria e di discussione etica, dato che il sublime non è altro chi il prodotto di una grande personalità morale: “Un vero oratore deve evitare pensieri meschini ed ignobili” scrive l’autore “poiché non è possibile che chi coltiva per tutta la vita pensieri e occupazioni piccini e servili possa produrre qualcosa di meraviglioso, degno di fama immortale… solo un grande impulso morale (nell’accezione che tale concetto ha per la cultura antica) può dare vita al capolavoro. Il Sublime – prosegue Giulio Guidorizzi – non ha nulla a che vedere con il cosiddetto bello, concetto dal quale, anzi, l’anonimo autore si guarda con tale circospezione che l’idea non compare neppure fuggevolmente all’interno del suo testo. Ciò di cui egli si occupa è infatti il grandioso, e in modo specifico quella forma di grandioso letterario che si manifesta nei momenti della massima tensione espressiva, quando la parola dell’autore raggiunge il suo uditorio con tanta forza da determinare una particolare condizione psicologica, í cui tratti più caratteristici sono il cedimento della dimensione logico-razionale, uno stato di provvisoria alienazione mentale in cui il pubblico si identifica totalmente con il processo creativo dell’artista, una profonda commozione accompagnata da sensazioni di piacere di entusiasmo che soggiogano e trascinano la mente di chi ascolta”.

Inutile nasconderci dietro un dito. Di norma i trattati non sono di cordiale lettura, invece l’opera dell’Anonimo è fonte di piacere. La sbalorditiva modernità dei suoi giudizi critici, espressi nella forma smagliante dei “medaglioni” con cui ritrae fulmineamente artisti e opere, ci fa pensare di essere al confronto di un contemporaneo, un cugino appena più formale di quell’Harold Bloom che nei gloriosi Novanta del secolo scorso ebbe il coraggio di pubblicare Il Canone Occidentale, opera destinata a suscitare polemiche ciclopiche.

Le domande del critico statunitense sono le stesse che si era posto l’Anonimo duemila anni prima: “Quali sono i testi e gli scrittori su cui la civiltà occidentale ha edificato la sua letteratura? Quali caratteristiche rendono un’opera o un autore “canonici”? Con buona pace di Kant e della sua Terza Critica, secondo George Steiner non disponiamo di criteri oggettivi per la valutazione di un’opera letteraria; chiunque, sapiente o meno, ha il diritto di pronunciare il suo “non mi piace”. Di conseguenza la storia della cultura è ricca di dimenticanze, sopravvalutazioni, gaffe; a questo si aggiunge che le oscillazioni del gusto sono un fatto fisiologico, spesso repentino e altrettanto spesso catastrofico. Per distinguere il capolavoro dalle opere marginali la soluzione proposta da Steiner è affidarci alla durata delle opere e alle opinioni degli studiosi. Poco o punto “democratica” secondo il metro dell’imbecillità corrente, ma sensata e funzionale.

Le opere immortali nascono dall’arte e dal talento di uomini che non hanno paura di porsi obiettivi grandiosi destinati a nutrire l’umanità, sostiene l’Anonimo. La prima essendo una tecnica si coltiva, mentre il secondo è innato. Quali sono le opere immortali? Anche l’Anonimo, duemila anni prima di Bloom, elabora un canone che dopo duemila anni continuiamo a fare nostro: Omero, Eschilo, Euripide, Sofocle, Saffo, Archiloco, Pindaro, Demostene, Platone…

Resterebbe da chiedersi cosa ne pensano ChatGPT, Bing e Copilot. Se hanno un’idea del Sublime diversa da quella che gli incicciamo noi umani con i prompt. Se sapranno aiutarci nelle faccende domestiche come la lavastoviglie, o contribuiranno al rincoglionimento complessivo che sta velocemente riportandoci dentro la caverna. Quella di Neanderthal, non quella di Platone.

Nella foto in apertura. William Turner, Tempesta di neve. Battello a vapore al largo di Harbour’s Mouth (part.), 1842, Londra, Tate Gallery  (Public Domain via Wikipedia Commons)

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