Sul momento sembrano ore come le altre, insignificanti; ma poi, quando diveniamo consci della loro eccezionalità, incominciamo a scandagliarle tornando all’indietro, in un’ossessiva rievocazione di gesti e parole. Così, in questo ansioso rimuginio, Georges Simenon ci presenta Maloin nell’incipit di L’homme de Londres, mentre cena alle sette, con aringhe alla griglia, servite dalla moglie… Simenon scrive a Marsilly nell’ottobre del 1933 e pubblica L’homme de Londres in 23 puntate su Le Journal da dicembre.
Il parco umano dello scrittore belga si arricchisce di un personaggio in più, e conferma l’abilità di Simenon nel volgarizzare i “non protagonisti anonimi” dei migliori romanzi del Novecento. Piccoli uomini spesso di classe indefinibile ma infima, schivi del prossimo e dal prossimo schivati senza sforzo, taciturni fino al mutismo, quasi psicotici, anche perché ignoti dapprima a se stessi, privi di spirito o abitati da uno sconosciuto buio… Quante volte ci siamo sentiti come loro.
Uomini così, o forse omini così, puntini nel tessuto di un’enorme metropoli o di una sterminata provincia, narrano la crisi del soggetto (cristiano borghese), la sua disintegrazione, l’alienazione che ci ha reso tutti scarafaggi kafkiani incapaci di padroneggiare le leggi di incomprensibili meccanismi sociali o a capirle solo nel momento in cui finiamo per esserne schiacciati…
Rileggo L’uomo di Londra (Adelphi), mentre guardo la più sorprendente delle sue reincarnazioni cinematografiche – è la quarta -, la lentissima versione che ne diedero Béla Tarr (regista) e László Krasznahorkai (co-sceneggiatore) in A londoni férfi (2007), capolavoro scolpito in bianco e nero dal duo ungherese, il quale gioca la suspense di una trama “cerebrale” – in fondo, tutto si svolge nella testa di Maloin – nel muoversi al ralenti della macchina da presa, che invita anche lo spettatore frettoloso a un lungo e faticoso attendere.
Ma che cosa è accaduto all’omino di turno? Dall’abstract di Wiki: “Maloin, addetto agli scambi in una piccola stazione ferroviaria di un porto – nell’originale è Dieppe, in faccia alla Manica – diviene testimone di un omicidio ed entra in possesso di una grossa somma… Da quel giorno la sua vita non sarà più la stessa”.

Non so se Tarr e il suo compare abbiano reso un buon servizio a Georges Simenon. Di certo, sono significativi i rigorosi piani sequenza che caratterizzano il film. Si tratta di piani sequenza quasi tombali, al limite stesso del dire: si stoppano sempre su un’immagine ghiacciata o su un viso pietrificato, tenendone l’inquadratura come non si potesse più proseguire (scavare, sapere di più…), e facendone così il corrispettivo dell’iscrizione muta di una lapide. In questo modo, viene reso solenne anche ciò che in Simenon è trucco e divertimento, noir spicciolo, vizio piccolo borghese, sorpresa di lieve cabotaggio.
Il duo ungherese sottopone, invece, la piccineria del “non protagonista” novecentesco, colui che non sa vivere e si illude di potersi costruire un proprio destino, al vaglio solenne e imperturbabile dell’obiettivo – esame solenne e drammaticamente sproporzionato, stavolta più in senso kafkiano che beckettiano, alle tragedie dei poveri cristi…
A questo punto, viene voglia di vedere anche gli altri Uomini di Londra del cinema: L’Homme de Londres, 1943, di Henri Decoin Il porto delle tentazioni (Temptation Harbour, 1947), di Lance Comfort, se non il televisivo L’Homme de Londres, 1988, di Jan Kenya.