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Allonsanfàn
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Intervista a Philippe Boxho, il medico legale che dà la parola ai morti

Una donna pende impiccata dal soffitto di una stanza. Un uomo è stato ucciso nel sonno, a colpi di pistola. Un contadino afferma di aver dato la moglie in pasto ai maiali. Una giovane si è sentita male sul divano e lì è deceduta. Un signore sembra essere morto per autocombustione. Sotto il pavimento di una casa abbandonata, giace una mummia.

In tutti questi casi, quando c’è qualcosa “che non torna”, quando pubblico ministero, giudice istruttore e polizia sono dubbiosi, chiamano lui, Philippe Boxho, medico legale (e criminologo) di Liegi, in Belgio. E lui arriva. Lascia la sua borsa nell’ingresso, mette le mani in tasca per non creare altre impronte, osserva tutto, memorizza, ispeziona i locali, prende nota della temperatura della stanza dove giace il corpo. Poi si avvicina, e senza toccarlo, lo esamina, cerca tracce, indizi, prove. Poi, una volta che ha il cadavere tra le mani, sul tavolo delle autopsie, lo apre, leva “i pezzi”, li esamina, taglia, ricuce. Fino a che quella morte, alla fine, non avrà più segreti.

Philippe Boxho La parola ai morti

Fa così da 30 anni. Sul suo mestiere, sulle vite vissute e spezzate che ha incontrato, sui delitti camufatti da suicidi, sui suicidi così ingegnosi da sembrare crimini, sulle (rare) morti naturali, perché un medico legale viene interpellato quando c’è di mezzo un sospetto crimine, Boxho ha scritto tre libri, di cui l’ultimo, La parola ai morti – indagini di un medico legale, (pubblicato ora in Italia da Ponte alle Grazie) è diventato in Francia un caso editoriale, fino a raggiungere il milione di copie.

«“Follia” è la prima parola che mi viene in mente quando vedo i dati di vendita» scrive l’autore nella prefazione. «Pensavo di arrivare a 5 mila copie». E si legge davvero d’un fiato, questo libro, perché ogni capitolo ci fa entrare nella vita di qualcuno osservando il suo corpo dietro le spalle del medico legale che apre e disseziona, che spiega perché quella donna appesa non si era ammazzata, e quella autocombustione non era possibile, e quella morta per malore non si era affatto sentita male, e quell’elegante signore era vittima di un delitto amoroso…

Nessuna enfasi, però, nessun sensazionalismo, stile pacato, un filo di umorismo. «Una volta ero accompagnato da una troupe televisiva» racconta «e la giornalista mi chiese “Come si esce da un caso come questo, dottore?”. Io risposi: “Dalla porta”».

Nel suo mestiere, emozioni, turbamenti e riflessioni filosofiche (il senso dell’esistenza, che cosa c’è “dopo”…) hanno poco spazio. O meglio, una riflessione è possibile, forse l’unica: «Tutto ha una fine. Non dimenticate di godere della vita finché potete, rispettando voi stessi e gli altri, prima che la morte venga a bussare».

Philippe Boxho La parola ai morti
Philippe Boxho (credit, qui e sopra, @Bernard Babette)

Il suo è un libro che parla di morte, e di morti violente, e di cadaveri, eppure non è mai davvero macabro… come ci è riuscito?
«Non lo so!».

Ah beh, ma questa non è una risposta…
«Ecco, credo che sia perché ho scritto il libro come se lo raccontassi a voce, come se parlassi. Io non sono uno scrittore, sono un medico che narra delle storie vere, mettendoci anche un po’ di umorismo, quando possibile. E poi io non vedo la morte come qualcosa di macabro».

Come la vede allora?
«Come uno stato della vita, l’ultimo. Non lo temo».

Lei racconta di aver avuto una formazione cattolica, poi di essere diventato ateo. Anche per via del mestiere che fa?
«Ah no, lo ero già da prima. A 22 anni mi sono reso conto che non credevo più. Per me non esiste alcun Dio».

Quanti cadaveri ha visto nella sua carriera, più o meno?
«Circa 10 mila».

Il primo?
«È stato alla Scuola di medicina, era un corpo che bisognava dissezionare, aprirlo per vedere tutte le strutture anatomiche: sei studenti per un cadavere. Non era un omicidio però, era un uomo che aveva deciso di donare il suo corpo alla scienza».

Ci sono tante persone che donano il loro corpo alla scienza?
«Ah no! Pochissime. Bisogna pensarci e decidere mentre si è vivi, e ben pochi lo fanno».

E lei lo donerà alla medicina dopo la morte?
«No, no. Incenerito. Anche perché sono professore all’Università, dare il mio corpo alla scienza significherebbe darlo ai miei studenti, che mi conoscono, sarebbe un po’ troppo».

Se avesse la possibilità di vivere per sempre, accetterebbe?
«No, sarebbe insopportabile.  Vedere tutti gli altri morire intorno a me… terribile. Come nel film Highlander, ricorda?».

Alla fine si rischierebbe di morire di noia…
«Esattamente. Di noia, e da soli».

Con le sue indagini post mortem lei aiuta ogni giorno a scoprire molti omicidi, che altrimenti passerebbero inosservati. Ma il delitto perfetto esiste? O accade solo nei film e nei romanzi
«Ah, c’è eccome. Basta far sparire il corpo in qualche modo, o ucciderlo in maniera tale che non si capisca che è un crimine. In Belgio, del resto, abbiamo un grosso problema, e cioè che si fanno pochissime autopsie. In Europa in media si eseguono sul 12 per cento dei morti, in Belgio sull’1-2 per cento».

L’anatomopatologo insomma è una sorta di Sherlock Holmes?
«Assolutamente sì Il medico legale è un investigatore».

Nel suo libro sono tanti, in effetti, i finti suicidi che in realtà sono omicidi…
«Ed è così che molti crimini alla fine sfuggono alla giustizia. Almeno in Belgio, avviene anche per questioni finanziarie, ossia non si investe in questo tipo di analisi».

Lei sostiene, a un certo punto, che «non esiste una bella morte». È così raro andarsene nel sonno, come tutti ci auguriamo?
«Ma no, a volte succede… Racconto per esempio di un uomo cui capita di morire per colpa di un aneurisma mentre dormiva. E, senza accorgersi che in realtà era già deceduto, la figlia durante la notte lo “uccide” a colpi di pistola per liberarsi di un padre violento».

Ricordo quel capitolo, e non verrà incriminata perché tecnicamente non è colpevole. Invece la scena più impressionante cui ha assistito?
«Quello di un monsieur, di un signore, che uccise la moglie, i due figli, la suocera e poi se stesso perché avevano abbattuto i suoi cani, dopo che avevano aggredito e ammazzato un bambino. Lui era entrato in una profonda depressione e alla fine aveva sterminato tutta la famiglia, passando da una stanza all’altra. Sono quei casi in cui la depressione è così intensa che chi ne soffre pensa che non potrà mai più succedere niente di bello, che la vita non vale la pena di essere vissuta, neppure dai suoi figli, e allora si porta tutti via con sé».

Mentre fa l’autopsia di un bambino, riesce a mantenersi emotivamente distaccato?
«È difficile, e lo era soprattutto all’inizio, perché avendo io stesso dei figli, spesso della stessa età di quelli di cui sezionavo i corpicini, era facile immaginare che quelli sul tavolo operatorio fossero i miei bambini… Adesso i miei figli sono grandi, e questa sorta di proiezione non c’è più, ma resta doloroso, perché i bambini sono destinati a vivere e lì invece sono morti, e di morte violenta, ingiusta».
Dopo tanti omicidi e delitti, che idea si è fatto degli esseri umani, dell’umanità?
«Resto ostinatamente ottimista. E amo molto la gente. Il mio mestiere non ha cambiato il mio modo di vedere il prossimo. Il fatto di conoscere persone che ne hanno uccise delle altre non mi farà mai credere che l’uomo è malvagio».
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