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Allonsanfàn
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Gangs of Milano e il rap farlocco dei cliché

Il senso dell’onore, da patriota della propria etnia. L’importanza del gruppo e della famiglia, che nemmeno nel Padrino parte seconda. Le catene gerarchiche rispettate col fare marziale del nazista in altra divisa. I loschi traffici e gli scambi lacrimosi di umanità superstite. Le discese ardite tra le pagine del codice penale – si movimentano i soliti chili di bamba. Le risalite nell’amore senza scampo e nell’amicizia cameratesca di chi vive e sopravvive dentro la città alveare dell’immigrazione, in una metropoli killer di tutti i sentimenti puri semplici basici. E per passare il tempo che non passa mai, ci si posiziona in stand by con tanti cannoni e molta play.

Gangs of Milano Blocco serie

Ogni sorta di cliché da rapper stordito dalla propria prosopopea o da ragazzo della via Pál in versione distopica si svela e si esalta in Gangs of Milano, séguito de Il Blocco 181, dove l’intraprendente latina, la Bea della Misa, dopo aver fatto pace con il cupo giustiziere Mahdi e guardando negli occhi stravolti di Ludo, l’italiano maudit appena uscito da un party nei loft dei paradisi sintetici, sussurra qualcosa del tipo: “Ma ce ne andremo mai da Milano?”. Dove “Milano” stona come una rima sballata perché spaccia (è il verbo giusto) Milano, la Milano della serie, per un luogo leggendario che ti ruba l’anima, e non per la città loffia e stereotipata qui reinventata, che ha l’anima di un travet della moda stregato dal campionario di Guè. Del resto, la Gomorra servita in salsa di banlieu meneghina (da Gomorra arriva tra l’altro il regista Ciro Visco) è incredibilmente priva di reali agganci all’attualità – cosa che l’avrebbe nobilitata o almeno resa sensata – e quasi per beffa è stata girata per lo più a Torino. L’unico dettaglio ironico di una serie dalla serietà patibolare.

Non esistono nemmeno all’orizzonte, o di sfuggita, i Salvini-Piantedosi, i tutori dell’ordine che di notte inseguono i ragazzi in motorino fino allo schianto, nessuno porta in evidenza problemi di integrazione o di culto, demandati alle preghiere individuali dei singoli warriors o sopravvissuti. L’avventura del romanzone-polpettone criminale si svolge nel vuoto pneumatico della fantasia e in una stilizzata iperrealtà (simbolica di cosa?), che infine propone come grande villain traditore un italiano sopravvissuto a una crisi mistica.

Vale a dire: ci si appassiona e ci si diverte nella sintassi visiva di un prodotto formalmente internazionale, a patto di non essere allergici al francobollo imbevuto in tutte le retoriche del Kitsch, che guida nel pasticcio noir milizie latine, arabe e debosciate – mancano giusto, tra i luoghi comuni, la mala col coeur in man e gli tsigani che ti straziano con il violino come nei gialli paraculi di Alessandro Robecchi. Guest star e consulente sonoro, il coriaceo rapper Salmo, che appare nel sesto episodio, in sé concluso e forse il più sopportabile.

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