Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) è quello dei gialli di Ricciardi – assai piaciuti in tv – dove il commissario a cui gli spiriti narrano il fine vita degli uccisi va a spasso per gli anni Trenta con la bella faccia e il ricciolo malandrino di Lino Guanciale.
Non che si voglia sottovalutare i Bastardi di Pizzofalcone, altro ciclo di romanzi, altra filiera del prolifico scrittore, anch’essa fresca di felice sbocco sul piccolo schermo, ma con questo film, Il silenzio grande, terza regia di un appassionato e molto compreso Alessandro Gassman(n), siamo (molto) più chez Ricciardi.
L’atmosfera è vintage, come volgarmente si suol dire, e il senso dell’esistenza, e del suo consumo, fatalmente precario come nelle avventure del commissario, anzi qui di più, c’è quasi “una sospensione tra la vita e la morte”: così dichiarò una volta l’autore, a proposito di una trilogia teatrale e Il silenzio grande è stato infatti scritto per il teatro.
Ne conserva sul grande schermo l’impianto molto verbale e una certa statica annegata calligraficamente nella fotografia malinconica di Mike Stern Sterzyński – giocando sulla desaturazione dei colori, e seppiando tanto, amplifica l’evanescente importanza di essere vivi e attivi.
Siamo in una decaduta villa signorile di Posillipo, a metà dei Sessanta, e tutto passa per lo studio di uno scrittore senescente, il celebre Valerio Primic, un tempo assai letto, ma oggi incapace di vendere un libro – o di adattarlo alla tv. Tutto passa per lo studio, e cioè: una moglie insoddisfatta e a tratti bevuta, che forse se la fa col commercialista e che è decisa a liberarsi della casa per ripartire da capo azzerando i debiti; i due figli, un maschio e una femmina, senza arte né parte, anzi allo sbando, ma d’accordo con la madre sulla necessità di sbarazzarsi della magione; una cameriera falso svampita che funge da coro greco. E lui, invece, il grande Primic, che fa? Soffre e sbuffa, gira a vuoto, non batte né tasto della macchina da scrivere né chiodo, cerca di comprendere tutti, perché tutti sembrano raccontargli fatti che ignora – e si tratta in genere di orrende sorprese -, toglie il cardigan e si da alla ginnastica, si consulta smagato quasi più che disperato con la pettegola cameriera, cerca comunque di difendere sempre, senza arretrare, eppure sempre più flebilmente man mano che il tempo passa, la sua posizione. Mai vendere, mai… Ma si può dire mai? Possono forse gli uomini dire mai?
“Questo film è una carezza, con personaggi che hai voglia di abbracciare, specie ora che non possiamo farlo fisicamente”, ha detto Gassmann che firma con de Giovanni e Andrea Ozza la sceneggiatura e che per sé ha tenuto un cameo di due deliziose scene in cui prende per il culo la sua proverbiale avvenenza. È vero che gli attori lo aiutano tutti: Primic-Massimiliano Gallo, la moglie Margherita Buy, i figli Emanuele Linfatti e Antonia Fotaras e la domestica Marina Confalone. Ma Gallo viene prima degli altri, in qualità di mattatore atipico – anche se forse si può trovare nella sua figura, così come la “accarezza” Gassmann, qualcosa di autobiografico per il regista. Cresciuto tra Eduardo e Salemme, e ora di qua, ora di là, Gallo ha sempre la misura esatta del testo e il sentimento della scena.
Attenzione SPOILER: Vedendo Il silenzio grande, viene subito in mente la commedia di Eduardo I nostri fantasmi. Davanti alla sorpresa finale, ci si chiede se de Giovanni e Gassmann non abbiano barato per tre quarti di film troppo disinvoltamente (li perdoniamo lo stesso)