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Dynasty medievale: Manfredi di Svevia tra storia e mito nel libro di Paolo Grillo

Altro che “secoli bui”, come recita un luogo comune, privo di fondamento ma molto in voga. Nel Medioevo si sono dipanate storie appassionanti che potrebbero essere ambientate al giorno d’oggi, tra scontri di potere all’interno di potenti famiglie e fuori, nel mondo in subbuglio. Capita perché si tratta di vicende universali, nonostante i contesti diversi: non a caso questo canovaccio ha ispirato, nell’era della tv, un sacco di fiction di fama globale, da Dallas (1978) e Dynasty (1981) in poi. Un’occasione interessante per constatare questa circostanza è offerta dal volume Manfredi di Svevia. Erede dell’imperatore, nemico del papa, prigioniero del suo mito; edito da Salerno Editrice nella collana Profili, è scritto – con rigore scientifico pari alla fluidità narrativa – da Paolo Grillo, professore ordinario di Storia medievale all’Università statale di Milano.

È possibile “trasferire” la storia del re di Sicilia, uno dei 7 figli legittimi (nel suo caso, legittimato) dell’imperatore Federico II di Hohenstaufen, nel XXI secolo? Proviamoci. Ecco sulla scena un Manfredi dei giorni nostri, partorito dalla quarta moglie del prolifico proprietario di una potente multinazionale: per esempio, una Big Tech del Web. A 18 anni, il ragazzo si trova, per una serie di casi e per qualche scelta, al capezzale del padre morente, colpito da un’improvvisa malattia. Lo assiste e ne raccoglie le ultime volontà, nella consapevolezza che, con la fine del potente genitore, anche il suo futuro sarà incerto. Tanto più che si è sempre sentito un figlio di serie B, rispetto a quello prediletto, Corrado, pronto a ereditare l’impero aziendale. Quindi Manfredi non ha, in teoria, alcuna speranza di arrivare ai vertici. Però – quando il padre sta per spirare – Corrado è lontanissimo, in altri affari affaccendato; cosicché il potente genitore cede provvisoriamente il timone proprio a Manfredi, chiedendogli di preservare l’azienda, in attesa che l’altro possa prenderne possesso. Il destino vuole che pure l’erede designato perda la vita inaspettatamente, poco dopo essersi presentato per esigere il dovuto; lascia l’eredità al figlio Corradino, che però ha solo 2 anni. Cosicché il fratellastro di serie B passa in A, con l’imprevista possibilità di accaparrarsi tutto il potere, scalzando il nipotino. Per riuscirci stringe alleanze, china la testa in caso di necessità, punisce i traditori, difende il patrimonio, è duro e senza pietà, altre volte si mostra generoso. Quasi raggiunge il suo scopo. Finché un’altra grande azienda (da sempre concorrente e molto influente) gli scatena contro un imprenditore senza scrupoli, che mette in campo le forze necessarie per fare fuori (fisicamente) Manfredi, ormai 34enne, e, qualche anno dopo, anche Corradino, appena sedicenne.

Il sogno svevo e il papato

Ce n’è abbastanza per ispirare una nuova Dynasty, serie tv ambientata nel giro dei voraci magnati del petrolio. Però la trama, catapultata nel Medioevo, in cui è realmente accaduta, diventa storia, quella vera: basata sulle fonti e sulla ricerca, non sulla fantasia, sebbene resti un racconto degno delle migliori sceneggiature. Ecco dunque, nel volume di Grillo, Manfredi re di Sicilia (1232-1266), pargolo naturale dell’imperatore Federico II di Svevia (1194-1250) e di Bianca Lancia (1210-1248), quarta e ultima moglie dello Svevo, che l’avrebbe sposata in articulo mortis e che sicuramente legittimò il ragazzo come figlio. Alla morte di Federico, Manfredi era accanto al padre: appena diciottenne, fu chiamato a diventare reggente per Corrado IV (1228-1254), il fratellastro; però, dopo la morte di quest’ultimo, nel 1258 scavalcò i diritti del nipote Corradino (1252-1268) e si fece incoronare a Palermo. Altalenando tra guelfismo e ghibellinismo, pur di raggiungere il suo scopo (che includeva anche il sogno di diventare imperatore), prima corteggiò il pontefice di turno; poi, visto l’insuccesso, cercò di creare un sistema di alleanze contro il papato, che replicò a colpi di scomuniche e offensive militari. Finché nel 1263 i papi Urbano IV (1195-1264) e Clemente IV (1190-1268) offrirono il regno degli Svevi a Carlo I d’Angiò (1226-1285), figlio del re di Francia, Luigi VIII (1187-1226), e fratello del sovrano successivo, Luigi IX (1214-1270). Carlo sconfisse e uccise Manfredi a Benevento, il 26 febbraio 1266; poi fece altrettanto col nipote Corradino, battuto nella battaglia di Tagliacozzo, in Abruzzo, il 23 agosto 1268. Così calò definitivamente il sipario sulla lunga avventura degli Svevi in Italia (e altrove).

Di certo, la cavalcata nel XIII secolo del figlio di Federico e di Bianca Lancia colpisce per ciò che ha significato nella storia dell’Italia medievale. Con effetti a lunghissimo termine sugli assetti politici del territorio italiano e con la fine del sogno svevo. Un sogno detestato dal papato perché mirava a creare un impero esteso dal Mare del Nord al Canale di Sicilia, anche a spese della Chiesa. Infatti il padre di Manfredi, l’imperatore Federico II, era figlio di Costanza d’Altavilla (1154-1198), erede del Regno normanno di Sicilia (corrispondente a tutto l’attuale Mezzogiorno), e del figlio di Federico Barbarossa (1125 circa-1190) Enrico VI di Svevia (1165-1197), re di Germania e imperatore del Sacro romano impero, che, sposando Costanza, aveva ottenuto il dominio su tutto il Sud d’Italia.

Manfredi in Purgatorio

Però l’avventura di Manfredi, durata 16 anni dopo la fine del padre, colpisce anche per la sua dimensione umana e romanzesca: quella del “figlio bastardo” riconosciuto in extremis, impegnato nell’impetuoso e disperato tentativo di sfruttare il vento della storia, per qualche tempo a suo favore. L’autore del libro ne descrive nei dettagli il percorso, fino alla sconfitta e alla morte, nei primi 13 capitoli. Ma il libro non finisce qui. Dal XIV al XVI capitolo ecco il nostro Manfredi morire, per risorgere nella dimensione del mito: quello che alimentò egli stesso, quello alimentato da chi non lo credeva morto ma pronto a tornare (analogamente a ciò che era capitato per il nonno Barbarossa e il padre Federico II); fino al mito elogiativo riemerso in chiave risorgimentale, nel XIX secolo, tanto da trasformarlo quasi in un eroe nazionale: “Manfredi”, scrive Grillo, “veniva a incarnare il principe italiano che si opponeva allo straniero e i suoi traditori diventavano i traditori dell’Italia intera”, dato che gli era “attribuito un disegno unitario ante litteram”. Un “Manfredi falso”, evidentemente, “costruito appositamente per alimentare il mito risorgimentale e ormai sganciato dalla figura reale”.

Paolo Grillo contribuisce, dunque, a far tornare Manfredi, oscurato storiograficamente per buona parte del Novecento dalla figura preponderante del padre Federico II, nell’alveo della ricerca scientifica, sottraendolo all’oblio e pure alla polemica politica ottocentesca. Però l’autore sa anche restituirci, come abbiamo visto, oltre che la figura del personaggio storico anche quella dell’essere umano, con tutte le contraddizioni e i dilemmi, i meriti e i demeriti. Lo fa senza dimenticare che Dante Alighieri (1265-1321) contribuì molto a creare il mito. La Divina Commedia, scritta nei primi decenni del XIV secolo e in cui sono elogiati vari esponenti della casata di Svevia, offre nel terzo canto del Purgatorio il ritratto più celebre di Manfredi: “Biondo era e bello e di gentile aspetto / ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso”. Il giovane principe è descritto con le ferite – quelle subite nella battaglia fatale contro Carlo d’Angiò – ancora impresse sulla sua anima. E Dante gli concede il Purgatorio, nonostante la scomunica papale. Noi concediamo a Manfredi, grazie a Grillo, un’opportuna collocazione nella nostra storia, scoprendo che la ricerca storiografica è capace di surclassare qualsiasi fiction o fake news dei nostri giorni.

IL LIBRO Paolo Grillo, Manfredi di Svevia. Erede dell’imperatore, nemico del papa, prigioniero del suo mito  (Salerno Editrice, Roma 2022 – 292 p., 22 euro)

 

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