Dell’anima non mi importa (La Nave di Teseo), il nuovo romanzo di Giorgio Montefoschi, è stato salutato da inusuali tweet inferociti perché lui, di solito composto ed educato come i suoi personaggi, i quali sono borghesi romani che semmai bruciano dentro, di amore e di infelicità assortite occultate dietro la loro professionalità e i loro accurati riti da classe agiata, in un’intervista ha indicato tra gli autori italiani sopravvalutati Italo Calvino, spiegando che era un furbacchione manipolatore dei poteri di Einaudi e del Pci, e non fosse bastato ciò, in un’altra risposta, ha snobbato vigorosamente le tanto esaltate scrittrici italiane di oggidì.
Ma amen. Ci sta che uno scrittore di lungo corso come Montefoschi (nato nel 1946, premio Strega nel 1994) si permetta una tantum di esagerare (o no?), magari nei pezzi dedicati a un libro che potrebbe restare impigliato nell’impasse editoriale da pandemia, mentre il giornalista gli chiede, forse avventatamente, se si sente l’erede di Moravia (perché parla di borghesia romana) e lui si pensa invece sodale (e così pensa chiunque lo ha appena leggiucchiato) di Bassani.
Comunque sia, dopo aver immolato anch’io i miei tweet sull’altare della futilità social, ho incominciato a leggere Dell’anima non mi importa senza più preoccuparmi di altro, tranquillizzato dalla prevedibile topografia del romanzo.
È la consueta, quella di sempre. Siamo ai Parioli in via Mercati, parallela di via Mangili, tra via Bruno Buozzi e via Ulisse Aldrovandi, e sono sicuro che, se andassi a Roma, troverei famigliari questi luoghi, identici a come sono messi in pagina, con gli oleandri di via Mercati, di cui ho saputo tutte le trasformazioni stagionali, vicini al Museo Africano e a quello di Arte Moderna, che Montefoschi nomina sempre (i suoi elenchi credo appartengano a una sorta di cerimonia apotropaica). Non solo esistono questi posti su Google maps, ma da anni godono di una supplementare aura letteraria grazie allo scrittore romano. Non spostandosi quasi mai di luogo con la sua immaginazione, Montefoschi ha legato ai Parioli che conosce da quando è nato – e su cui lavora – una galassia di personaggi che probabilmente assomigliano a quelli che conosce da quando è nato – e su cui lavora – che a volte fanno camei in più romanzi, si incontrano, si incrociano, spariscono, forse muoiono, ritornano nei flashback ma non basta. Appena muoiono, lievemente cambiati d’aspetto, ricominciano a vivere con un altro nome in un altro romanzo quasi uguale e nelle stesse vie di Roma dove abitavano quelli di prima e soprattutto – è la loro massima occupazione – s’innamorano perdutamente di donne chic e misteriose, come Sandra Ballio de Lo sguardo del cacciatore o Livia Ceriani, comparsa nel recente Desiderio. Donne emotive ed esposte al vento, dalle fragilità improvvise e dalle inaspettate forze muliebri, che dormono interi pomeriggi in inverno e camminano d’estate in eleganti vestitini leggeri, con un po’ di oro a illuminarle, sui sandali bassi.
Le amanti in Montefoschi sono quasi sempre più interessanti delle mogli – anche quando sono esse stesse mogli di altri – e forse non c’è bisogno di un critico – figura oggi inesistente come lamenta lo stesso Montefoschi – di un erede di Pietro Citati ma pure di un novello Geno Pampaloni, per spiegarci perché. Meno questa volta, però, in cui Carla Rubbiani quarantenne con il marito Enrico più anziano di vent’anni ma non rassegnato a inumarsi nella vecchiaia pur non sapendo come evitarlo – c’è un tema d’impotenza e di disperazione sempre più evidente nell’ultimo Montefoschi, che procede per dialoghi e periodi telegrafici, fibrillanti di precarietà e, come i telegrammi appunto, potenziali latori di pessime notizie – la moglie Carla Rubbiani, dicevamo, batte in breccia la forse troppo milanese (e poco montefoschiana fin dal nome) amante di turno, Simona Savignano, molto edipica e camminante sui tacchi.
Mi è parso che, spostata di pochi gradi l’asse del microscopio o del telescopio adoperato, Dell’anima non mi importa parli du côté de chez femmes più che d’abitudine. Di una donna soprattutto, Carla Rubbiani, e di una figlia, Maddalena, che le è di conforto quando accade l’inevitabile che in un libro di Montefoschi, prima della morte fisica, è l’adulterio, la fine del matrimonio inteso come un’idea e una prassi di completezza per quanto mediocre concessa agli umani. Chi non ricorda un titolo-ossimoro trionfalmente vitale e tombale per un amore come La felicità coniugale? Ma non perdiamoci. Per una volta, separate dai maschi quieti e febbrili che le hanno desiderate e, spesso ormai, per motivi d’anagrafe, si accasciano a fine cena spaventando i commensali che stavano chiacchierando di quisquilie, donne come Carla Rubbiani possono diventare soggetto – senza lo schermo protettivo di un aitante e poi senescente protagonista maschile – del narrare di Montefoschi. Ma forse lo scrittore ha fatto solo un gioco di prestigio ed è accaduto che io mi sia distratto e allontanato dal vero centro della storia, ossia l’introverso, quasi muto e paziente (in senso evangelico) avvocato Enrico Rubbiani.
La strategia del lumetto
Fregandomene dei giudizi antichi di Angelo Guglielmi, nonno radical chic dell’Avantgarde de’ Noantri, credo che la mia fiducia nel gusto e nell’estro letterario di Montefoschi dipenda dal fatto che questi mi offre con serietà e costanza “prodotti tradizionali”; mi regala l’ultimo dei romanzi borghesi, sito, per guardare in alto e fuori patria, tra le antiche colonne d’Ercole di Proust e di Henry James, uno citato per acutezza malinconica di sguardo e l’altro per lo stato di continua emergenza di accadimenti ininfluenti tra una ellissi e l’altra. Questo anche se nel nuovo romanzo appaiono altre citazioni letterariamente interessanti: si manifestano vitalistici e impossibili rimpianti per non aver vissuto nell’Alessandria di Lawrence Durrell, che in fondo a guardar bene può scoprirsi distante un passo dai notoriamente noiosi Parioli. Egualmente significativa è una pagina dedicata a La montagna incantata di Thomas Mann: in una conversazione tra due uomini anziani, Montefoschi sembra confermare che è impraticabile un finale di vita affidato a una festa immemore della malattia (o della decomposizione del corpo), ma anche in questo caso il sanatorio del prototipo sembra raggiungibile da Villa Borghese mediante una toccata e fuga a Dobbiaco. Mai come negli ultimi romanzi il tema della malattia risuona nelle laconiche frasi di Montefoschi.
Dicevamo prima delle storie che si ripetono inalienabili alla memoria immaginativa dell’autore. Spesso basta una parola per capire il modo e per valutare la luce di un romanzo di Montefoschi. Non sto a scocciarvi citando Leo Spitzer. Io avevo scommesso con me stesso che avrei ritrovato un “lumetto” nel nuovo romanzo. E infatti c’è n’è uno a pag. 47 e il secondo compare a pag. 76, poi ne scovo a pag. 246 e a pag. 249… Ce ne sono sempre di “lumetti” sul comodino vicino al letto e i protagonisti li accendono e li spengono prima o dopo fatto l’amore e comunque, anche se non si amano, la luce del lumetto è fioca, è un vedo-non vedo, è esattamente quello che Montefoschi cerca di farci vedere da decenni o riesce a vedere lui di quello che può raccontare dei suoi personaggi. Intanto invita a capire una cosa essenziale (relativa all’essenza del realismo di un romanzo, e non sto a scocciarvi con Auerbach): che non serve, in letteratura, accendere i fari abbaglianti neanche durante la nostra brevissima e infelice notte.
IL LIBRO Giorgio Montefoschi, Dell’anima non mi importa (La Nave di Teseo)