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Allonsanfàn
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La comunicazione percepita della guerra: Putin, Zelensky e Pinocchio

Il solo aspetto del conflitto tra Russia e Ucraina che un PPA come me ha il diritto di affrontare, sia pure con un’infinità di cautele, è la comunicazione percepita. PPA è l’acronimo di Piccolo Pubblicitario Anziano, laddove l’individuo – per dirla con il buon vecchio Marx – è anche l’insieme (o il risultato) dei rapporti sociali di produzione. Frase contorta che potrebbe essere semplificata dicendo che ciascuno di noi è (anche) il risultato del lavoro che ha compiuto. E delle relazioni che ha esperito attraverso le relazioni di lavoro. Fine della (speriamo non inutile) premessa.

Parlare di comunicazione percepita in luogo di comunicazione tout court non è un vezzo ma una necessità. Indica lo iato che separa le intenzioni (gli obiettivi e le strategie) dai risultati. Non conosciamo se non per inferenza che cosa realmente si erano prefissi i marketer della marca X: quale quota di mercato conquistare, quanta notorietà e quale reputazione, da parte di chi. La comunicazione percepita si misura facilmente attraverso processi e metriche ampiamente sperimentati. Tuttavia come sempre l’ultima parola – quella vera – la pronunciano i dati di vendita.

Non dispongo di dati di ricerca sulla comunicazione percepita. Alcuni dati di contesto li trovate qui. Non so quanto utili: la volatilità in questi casi è persino maggiore di una promessa di marinai. Restando sul percepito a pelle, tipo “da chi comprereste quest’auto usata”, la sorpresa è la catastrofica perdita di credibilità del sistema russo oltre che di Putin stesso. Qualche amico di Boffalora, antisovietico sino al punto di disturbare la proiezione della Corazzata Potëmkin, obietterà che il sistema russo-sovietico non è credibile per definizione. Eppure è ormai accertato che i “comunicatori russi”, chiamiamoli così, siano riusciti a condizionare le elezioni statunitensi contribuendo al successo di Trump; abbiano favorito i brexiter e più in generale ogni movimento di ispirazione sovranista e anti-occidentale in Europa. Insomma erano (e a quanto pare sono tutt’ora) parecchi gli amici dell’amico Putin nel nostro Paese. E quindi, come direbbe Max Allegri, lo sfortunato allenatore della povera Juve, pure piuttosto bravetti i comunicatori sediziosi made in Moscow.

Dall’altra parte, dalla parte dell’Ucraina, stava un comico. Uno più noto per suonare il pianoforte con la virilità che per le opinioni politiche. Adesso non chiedetemi come si suoni il pianoforte con il GinoPino né, soprattutto, in che Stato si trovi il suddetto dopo l’esecuzione; ma è un dato di realtà che Volodymyr Zelensky diede il nome della sua serie tv Servitore del popolo al partito con cui si presentò alle elezioni nel 2019. La sua candidatura ritenuta una burla raccolse alle elezioni circa il 70 per cento dei consensi. Roba che al confronto Beppe Grillo può andare a scopare il mare. Vinse ma fu ritenuto un fantoccio, una testa di legno di oligarchi (ci sono pure in Ucraina i ricconi dalla ricchezza sospetta). Nel migliore dei casi un dilettante allo sbaraglio. Sembra assurdo ricordarlo ora, ma all’inizio del suo mandato Zelensky venne persino accusato di essere filo-russo.

Dopo tre settimane di invasione che ne è della notorietà, della reputazione e della “carica d’affetto” dei due brand? Forse non compreremmo un’auto usata da nessuno dei due. Forse il comico ucraino prestato alla politica ci deluderà dolorosamente una volta che l’orrore finirà. Ma se dobbiamo segnare i punti sulla lavagna è indubbio che il vincitore sia Volodymyr Zelensky. ll comunicatore in T-shirt verde militare non solo usa twitter e i social con la stessa abilità con cui (dicono) suonasse il piano con il pippolo, ma ha saputo conquistare in pochissimi giorni un peso internazionale che nessuno avrebbe pensato possibile.

Ho usato prima il termine “carica d’affetto”. I marketer della mia generazione l’impararono dalla scuola Unilever. Che, come da tradizione, allora si contrapponeva a quella made in Procter & Gamble. Inutile chiosare che, nonostante la sua impalpabilità, la carica d’affetto è assai più consistente delle divisioni corazzate che Stalin opponeva a quelle inesistenti del Vaticano nella celebre (e forse) inventata domanda. La carica d’affetto è la figlia del soft-power, quella cosa complicatissima da spiegare e facilissima da intuire che ci fa preferire i giardini del Lussemburgo a quelli di Alessandro che circondano le mura del Cremlino, gli champagne della Champagne allo Sovetskoe šampanskoye (sto alla larga da analoghi esempi americani per evitare che i punkabestia di piazza Corvetto notoriamente avversi alla Nato mi sguinzaglino i pit-bull).

Fino a venti giorni fa non sapevamo quasi nulla dell’Ucraina. Solo i più esperti di storia russa erano al corrente dell’Holodomor e ancora oggi si fa un po’ (parecchia) confusione sui “nazisti di Kiev”. L’Ucraina era quel posto lontano e sfigato da dove provenivano le donne infagottate e robuste che avrebbero lasciato i loro figli e i mariti per venire a badare ai nostri vecchi e ai nostri (scarsi) bambini. Nel giro di due settimane grazie all’amico Putin è cambiato tutto. Kiev – miracoli della “carica d’affetto” – è diventata una capitale europea; lo era sempre stata, ma noi non lo sapevamo. Gli ucraini di sesso maschile, quelli che nell’immaginario collettivo amano la vodka assai più del lavoro, eroi. E il comico di origine ebrea Volodymyr Zelensky è diventato un capo di Stato ammirato e rispettato che si rivolge da pari al Bundestag, al Congresso degli Stati Uniti, all’Unione Europea. Esta storia.

Giunto a questo punto dovrei premiare chi mi ha seguito sin qui con qualche indicazione bibliografica riguardo le tecniche di comunicazione pubblicitaria. La tragedia ucraina mi fa invece venire in mente Le avventure di Pinocchio, una delle poche opere dell’avaro Ottocento italiano che meritano di essere lette e rilette. Ritenuto a torto letteratura per l’infanzia che, come i più avveduti sanno, non è mai esistita, va letto come metafora della condizione umana, dramma della crescita e della trasformazione. La quale richiede sempre di pagare un prezzo. Quello che gli ucraini stanno pagando per diventare i legittimi proprietari del proprio destino è altissimo: purtroppo “lo Spirito del tempo” pare non faccia sconti. L’altra brutta notizia è che nel mondo c’è sempre qualcuno che preferisce i burattini di legno ai bambini in carne e ossa. Nel dubbio spara a entrambi.

Nella foto, Il Museo storico della Grande Guerra Patriottica (1941-1945), nel distretto di Kiev (credit: Bert Kaufmann for CC Images)

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