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Allonsanfàn
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Ozark. Gran finale per Ruth e una “famiglia allargata” (ai Narcos)

Appena ieri. Metti una famiglia di Chicago, padre consulente finanziario, madre ex pierre, figlio piccolo nerd, figlia adolescente confusa. Aggiungi. Un molto avido e ancor più feroce cartello della droga messicano. E poi. Pacchi di miliardi che il consulente – ficcatosi nei guai per colpa di un socio traditore e quindi scagliato giù da un palazzo – deve riciclare sotto minaccia di morte. Ma non più a Chicago, troppo facile, lì è bruciato. Deve farlo a Ozark, Missouri, dov’è fuggito, cioè il posto più sfigato del mondo, zeppo com’è di miseria e dei poveri orgogliosi resti dell’America rurale che fu. A prima vista, vediamo quasi solo uno spaccato di rednecks e white trash, in perpetua rissa e in intensa routine delinquenziale, quasi tutti con il fucile in mano, i più progrediti con il campo di papaveri da oppio dietro casa. Tre mesi è il tempo concesso al consulente per questi giochi senza frontiere del lavaggio soldi. A fine della prima puntata della prima serie inizia il conto alla rovescia per i quattro cittadini di Chicago trasferiti nel fango della campagna, disperati, pesti, persino insanguinati. Ah, oltre alla pelle, devono pure salvare la… loro famiglia.

Oggi e domani. Trentasette ore dopo, Ozark – adesso al bis della quarta e ultima stagione con sette episodi su Netflix dal 29 aprile – si è rivelata una delle rare serie capaci di costruire una sorta di mondo a parte (peraltro esemplato su quello vero) e che potrebbe ospitarci (come spettatori, per carità!) all’infinito.

I luoghi e la disumanità stracciona di Ozark – per esempio la sfigata dinastia dei Langmore – aiutano l’immigrazione della Chicagoan’s family dei Byrde, che fanno quasi subito faville nel riciclaggio. Peccato che il tempo – diciamo una dozzina di ore di serie – accenda impreviste e ambigue ambizioni (politiche, pecuniarie, filo criminali) nella famiglia che voleva solo salvare stessa. Papà Jason Bateman gioca sempre in difesa, perché ha troppi casini da risolvere e cerca di prendere con riflessiva calma – e l’ormai nota espressione da cane bastonato – ogni disastro o ricatto che potrebbe sprofondarlo con i suoi cari, da un episodio all’altro, all’inferno. Mamma Laura Linney, invece, perde la brocca abbastanza imprevedibilmente per business piccanti (molto al sangue) e svela che anche un’altra famiglia (più allargata) le interessa. Forse. I due figli sballottati e infelici copiano un giorno il padre e un giorno la madre ma tutto sommato subiscono l’appeal adolescenziale per gli sconfitti e familiarizzano (troppo?) con i rampolli Langmore, la rampolla Ruth in primis. Ruth. La matta. Il joker. La briscola della partita. Che appartiene agli “ultimi”, ha i riccioletti a filo spinato e la voce croaky di Julia Garner, ed è una ragazza resiliente (scusate la parolaccia) a ogni difficoltà, pronta a rialzarsi ogni volta dal fango e a provare a buttarci dentro chi le ha fatto lo sgambetto. Julia ha il primo e disperato rap di Nas in cuffia – vedi puntata numero 8 della quarta serie – e i sentimenti che scorrono puri e free nonostante una vita di sevizie famigliari: che sia lei, e non il dolente  Bateman (che giustamente un po’ la ama) o la tosta e inafferrabile Linney, il personaggio che più ci mancherà al game over della serie?

Giudicate voi. Io invidio chi può partire dall’inizio, non avendo mai visto Ozark – 40 ore di streaming sono davvero una settimana di appassionante lavoro – e non dimentico un applauso ai creatori di Mondo Ozark, Bill Dubuque e Mark Williams. Nella foto, pure lei da applaudire, ma di più, Julia Garner as Ruth Langmore.

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