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Allonsanfàn
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Gli Stati Uniti contro Billie Holiday. Quando Lady Day cantava Strange Fruit

I bianchi ipocriti preferiscono che canti musica da club come All of Me o una qualsiasi canzone d’amore; tutti gli altri esigono che il coronamento di ogni concerto sia Strange Fruit – lo “strano frutto” appeso a un albero, nella ballad solenne e persino disturbante scritta da Abel Meeropol, è il cadavere di un nero linciato.

Il governo degli Usa a buoni conti desidera che l’icona del jazz degli anni Quaranta Billie Holiday nota anche come Lady Day finisca muta magari dietro le sbarre di una prigione e non dia alcun contributo al movimento per i diritti civili con la sua voce dalle infinite ed espressive volute, capace di essere angelica e croaky, fino a ridursi al prezioso e straziante sussurro dell’ellepì terminale, Lady in Satin (1958).

Il biopic dedicato agli ultimi anni di vita di Billie Holiday mostra bene i due lati di una medaglia: la forza di un’artista umorale e capricciosa ma nobile, immensamente superiore a ogni meschinità, e l’incredibile fragilità di una donna segnata dagli abusi di ieri e dalle persecuzioni dell’oggi, che le valgono nel 1947 un anno di prigione.

Holiday ha per unico medicamento di fronte al gorgo del vuoto che le si spalanca dentro il buco di eroina e per schema sentimentale conosce solo il rifugiarsi in una sorta di schiavitù edipica: a lato di un suo pittoresco clan, frequenta niggers violenti e pronti a loro volta a venderla, stavolta non ai clienti ma ai federali.

L’unico buono tra gli agenti, un nero “sbiancato” dall’affiliamento all’Fbi, è il figlio di un ricco becchino e sarà nel biopic l’occasione persa da Holiday per cominciare una vita finalmente diversa. Inutile: Lady Day ha un buco nell’anima e non può fermare la sua corsa pericolosa e autodistruttiva. Risulta comunque bizzarro aver immaginato in veste di amante (deluso) – basandosi sulla biografia Chasing the Scream di Johann Hari – Jimmy Fletcher, l’uomo che segue per New York e in tour Billie Holiday con lo scopo di segnalarne un passo falso e spedirla in gattabuia.

Gli Stati Uniti contro Billie Holiday si deve all’estro di un abile indagatore e divulgatore di black history, Lee Daniels: attivo dal 2001, è un poliedrico regista e produttore nero. Noto ai più per Precious (ricordate la poetessa Sapphire?) e The Butler, mescola la sveltezza di sguardo del cinema indie con il passo del “filmone politico sociale” – anche se con questo taglio popolare e divulgativo potrebbe rischiare di schiacciare il personaggio singolo (e che personaggio!) di cui narra.

Daniels si avvale però dello script di una fuoriclasse, Suzan-Lori Parks, playwriter premio Pulitzer e già sceneggiatrice al cinema con Girl 6 di Spike Lee e The Native Son di Rashid Johnson (da una pietra miliare di Richard Wright). Nomi di rispetto, cui si aggiunge qui per forza quello di Andra Day, cantante prestata per la prima volta al cinema, fiera con l’orchidea bianca tra i capelli in un’interpretazione accortamente lo-fi del mito, tesa più all’anima che all’inevitabile sostanza sonora della Lady: il canto di Andra Day è più leggero, luminoso e pulito di quello della vera Holiday. Jimmy Fletcher è invece il bravo e carismatico Trevante Rhodes che abbiamo applaudito in Moonlight. Buona visione e, certo, buon ascolto.

Photo Credit: Takashi Seida

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