No, no e poi no, Allonsanfan.
Stroncare The Outsider così selvaggiamente è stato solo un colpo tremendo per una lettrice appassionata di Stephen King. Posso capire che non vi abbia convinto la serie, dal punto di vista estetico o recitativo (a me è piaciuta, peraltro), ma attaccare così violentemente King non trova molte ragioni.
“King non è Poe”, scrivete. Eh no, la spocchia intellettuale non va bene. Vogliamo ritornare alla vecchia tiritera della letteratura di serie A e di serie B? Ma sul serio?
Chi, vi domando, ha plasmato più di King l’immaginario sull’America e la dimensione di grandezza e fragilità che si vive nella giovinezza?
Non sto neanche a fare l’elenco dei registi che, negli ultimi trent’anni, si sono fatti ispirare in modo anche laterale dai suoi romanzi, da Kubrick in poi, definendo un’estetica che perdura e che ancora mi pare insuperata (Stranger Things vi dice niente?).
Ma torniamo a The Outsider: a “mandare tutto in vacca”, parole vostre, è la dimensione/spiegazione soprannaturale dell’enigma. Non mi pare strano, visto che da L’ombra dello scorpione in poi, il male, personificato o no, è uno degli elementi centrali della ricerca di King (il quale, d’altra parte, è un maestro anche a raccontare il male della quotidianità, la violenza familiare, il razzismo, il bullismo scolastico, pertanto è anche uno scrittore profondamente contemporaneo e realistico).
Ma ciò che mi ha fatto sussultare è stato il paragone con True Detective. Ragazzi, in True Detective il soprannaturale c’è eccome! A parte le citazioni del Re in giallo, il finale parla chiaro: la violenza umana dialoga con l’immateriale, c’è una dimensione sommersa di bene e male che ogni artista chiama come vuole, a cui non siamo liberi di credere o no.
Firmato: una vostra followera dal cuore infranto.
- Benedetta Verrini, autrice di questo intervento, è editor e giornalista
- Credit foto di apertura: Toyosan