«Sai qual è il nucleo della sofferenza vera? È il non sapere cosa sarà domani. È vivere in una realtà sospesa, in un tempo sospeso. È quanto sta accadendo alla popolazione ucraina, che è in attesa di uscire da una situazione che non si sa quanto possa durare».
Cristina Falconi lavora con Medici Senza Frontiere dal 2005 in quelli che sono Paesi del mondo più difficile: Niger, Haiti, Sud Sudan, Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Centrafricana, India, Congo, Sierra Leone, Bangladesh, Palestina. Dal 2018 e per più di tre anni è stata capomissione in Ucraina, dove si è occupata di progetti sulla tubercolosi multiresistente e sulla Hiv (l’Ucraina è il secondo Paese, dopo la Russia, per numero di diagnosi tardive e, di conseguenza, di sviluppo della malattia). In Ucraina Cristina è tornata quest’anno, dopo lo scoppio della guerra e l’invasione russa, come coordinatrice del team di emergenza di Msf con base in Transcarpazia, ai confini con Slovacchia, Ungheria e Romania, dove è rimasta fino al 21 maggio scorso.
Un team di emergenza per accogliere gli ucraini in fuga.
«Sì. La base è in Transcarpazia, e poi Msf ha cliniche mobili che si spostano nelle aree di arrivo degli sfollati. I primi tempi della guerra arrivava chi era riuscito a fuggire da subito. Erano persone sotto choc per l’idea stessa di quello che stava succedendo ancor più che per quello che avevano vissuto. Poi ha cominciato ad arrivare chi si era trovato sotto i bombardamenti, che aveva passato settimane nei rifugi negli scantinati. Persone che avevano vissuto la paura fisica delle bombe, delle esplosioni, il terrore di non riuscire a uscire dalle città sotto attacco, soprattutto Kharkiv e l’est del Paese. Traumatizzate e con problemi fisici, come coloro, soprattutto tra i più anziani, che avevano avuto danneggiato l’udito per le esplosioni. Msf è presente anche all’interno dell’Ucraina per chi non può o non vuole lasciare il Paese».
(Seguendo quanto accade in Ucraina, ancor più che alle polemiche politiche e a certe sciagure giornalistiche, io penso cosa sia perdere da un giorno all’altro tutto quello che si è costruito in una vita, piangere figli e persone care, dover scappare in un Paese straniero o rimanere nel proprio tentando di sopravvivere in una cantina di casa, rischiando ogni volta che si tenta di raggiungere un punto di distribuzione di acqua o di cibo. È quello che è successo e che sta succedendo in Ucraina dal 24 febbraio di quest’anno. Ed è quello che succede ogni giorno in tante parti del mondo).
L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite parla di centinaia di migliaia di bambini in fuga.
«A lasciare l’Ucraina sono nella grandissima parte donne e bambini, perché gli uomini non possono uscire dal Paese a causa della legge marziale. Là dove ho lavorato ho visto tanti padri che accompagnavano le famiglie al confine, e poi c’era il distacco che per i bambini è una grande trauma. Certo, gran parte di loro sono con la mamma e spesso anche con i nonni, ma hanno perso gli amici, la scuola, si trovano a dormire in stanze più che dignitose, in scuole o asili, ma insieme ad altri venti sconosciuti. È difficile per loro, ma è difficile anche per gli anziani, che hanno perso ogni tipo di riferimento. È difficile per tutti».
Come è stato per te tornare a lavorare in Ucraina?
«È stato come tornare a casa, in una casa dove oggi c’è la guerra. Ho lavorato con un team locale di cui facevano parte gli stessi che avevano collaborato con me al progetto sull’Hiv a Severodonetsk e che, come tanti altri, hanno dovuto fuggire. Sono sfollati che aiutano altri sfollati e sono anch’essi traumatizzati. Perché davvero non sanno se potranno tornare un giorno alle loro case».
Cosa ti colpisce degli ucraini?
«Rispetto ad altri popoli sono una popolazione molto resiliente, riservata. La prima cosa che ti dicono quando ti incontrano è: grazie di essere solidale con noi».
Questa guerra così vicino a casa, che ha suscitato un’ondata di solidarietà inattesa nei confronti della popolazione ucraina, aiuterà a renderci sensibili anche nei confronti dei tanti che fuggono da altre guerre, altrettanto atroci?
«Magari fosse così, ma non credo. Questa guerra ci coinvolge perché è vicina. Perché tante donne ucraine vivono già da noi e lavorano nelle nostre famiglie. E perché gli ucraini ci assomigliano, hanno modi di essere e di fare molto simili a noi, che ci specchiamo in loro. È come se vedessimo noi stessi scappare dalle nostre case. Si può discutere se sia giusto oppure no, ma è la prima volta che accade dopo la seconda guerra mondiale».
- Cristina Falconi ha partecipato e all’incontro sul tema “Le ripercussioni dei conflitti armati sulla popolazione civile” domenica 12 giugno alla Baia del Silenzio a Sestri Levante (Genova) nell’ambito dell’Andersen Festival. Con lei padre Vitaliy Tarasenko, cappellano della comunità ucraina in Liguria, Nadia Ammenti, presidente dell’associazione di volontariato In cammino per la famiglia, Maria Diletta Demartini, del progetto di accoglienza La luce di un gesto.
- Medici Senza Frontiere è impegnata in Ucraina con 140 operatori internazionali e 470 ucraini. Dal 24 febbraio, giorno dello scoppio della guerra, ha portato nel Paese oltre 800 tonnellate di forniture mediche e di soccorso. In collaborazione con le ferrovie ucraine e il Ministero della Salute Msf ha allestito il primo treno adibito a clinica d’urgenza, per trasportare i pazienti dagli ospedali ucraini sovraccarichi e vicini alle zone di guerra a quelli con maggiore capacità e distanti dalle linee del fronte. Fino al 2 giugno i pazienti trasportati sono stati 594, oltre a 78 bambini evacuati a un orfanotrofio. Informazioni sui progetti in corso si trovano cliccando qui.