Tema di questo pezzo è il buon vecchio caro marketing. Avviso subito i miei affezionati lettori che non tratterà di funnel, KPI, neuromarketing, SMO e neppure del tasso di conversione. Ovvero, nessuno dei ferri del mestiere di chi campa markettando on-line. Per carità, per essere importanti lo sono. Soprattutto se si deve giustificare lo stipendio. Tuttavia da tempo ho il sospetto che in un mercato piccolo come il nostro e per di più in un Paese demograficamente depresso e di coriaceo conformismo, i grandi cambiamenti che l’astuto marketing digitale promette di indurre si riducano a guadagni di quote di mercato calcolabili in miseri decimali.
Certo, monsieur De Lapalisse obietterà che un decimalino applicato sistematicamente a milioni di pezzi fa comunque una bella cifra. Ma qui si cerca di ragionare (o sragionare, a seconda dei punti di vista) della divinità pagana evocata in ogni riunione che si rispetti; un rito che dal più umile officiante sino al Sacerdote Supremo, l’Amministratore Delicato, si ripete enne volte periodico sempre uguale a se stesso. La dea evocata si chiama Strategia. Circondata dalle sue damigelle d’onore – copy strategy, digital strategy, media strategy – incede con il passo matronale della Callas nella Medea di Pasolini verso il Trono della Ragione dal quale, si spera, potrà esercitare le sue arti e dispensare i suoi saperi. Speranza destinata a rivelarsi più esile di Spike, l’emaciato fratello maggiore di Snoopy; quanto più la si nomina tanto più si fa sfuggente, sino a svanire come il Gatto del Cheshire. E di lei non resta neppure il sorriso.
Ma tornando alle premesse, cos’è – cosa significa e a cosa serve – il marketing? L’Oxford languages lo definisce come “il complesso delle tecniche intese a porre merci e servizi a disposizione del consumatore e dell’utente in un dato mercato nel tempo, luogo e modo più adatti, ai costi più bassi per il consumatore e nello stesso tempo remunerativi per l’impresa”. Definizione di scuola (a parte quel “ai costi più bassi per il consumatore” che farebbe scompisciare dalle risate il Briatore e la sua pizza da 230 euro) che si scontra con quella aulica se non utopica di Philip Kotler in Marketing Management, il classico dei classici per generazioni di markettari: “Il marketing consiste nell’individuazione e nel soddisfacimento dei bisogni umani e sociali”.
Con buona pace del signor Kotler l’esperienza ci ha insegnato che i bisogni umani e sociali il più delle volte sono bisogni persino più finti del parmesan cheese, indotti con tecniche non così dissimili dalle perline di vetro con cui il sagace uomo bianco comprò l’isola di Manhattan buggerando gli autoctoni. Per non parlare della strategia di sostituzione che va sotto il nome di obsolescenza programmata: prodotti progettati per morire a una data convenuta per essere poi sostituiti da edizioni nuove e migliorate. È il capitalismo bellezza, dicono alcuni, mica vuoi che si fermino le fabbriche?! È la forma più primitiva, sostengono i seguaci dell’economia sostenibile, quelli che ritengono di essere i soli capitalisti doc perché consapevoli di perseguire il profitto in un mondo le cui risorse sono per definizione finite (dichiarazione esplicita di un relatore a Davos 2022).
Come mai il marketing digitale, quello del KPI, neuromarketing, SMO e del tasso di conversione, spesso e volentieri non funziona? Ce lo spiega Chiara Ferragni, la regina degli imprenditori digitali: “La rivoluzione è che sui social bisogna essere onestamente se stessi, se menti non funziona. Io alla fine faccio quello che sento autentico, voglio continuare a raccontarmi senza filtri, anche rischiando di sbagliare. Su Instagram siamo tutti nello stesso tempo protagonisti e spettatori e dobbiamo accettare di metterci in gioco”.
Essere onestamente se stessi, spiega la signora Ferragni. La stessa regola aurea che raccomanda una qualsiasi brand strategy scritta in scienza e coscienza. Quella stessa che poi di norma l’azienda – Amministratore delicato in testa – si guarderà bene dall’applicare con coerente intelligenza.
Afferma ancora Chiara Ferragni: “Quando ho iniziato io, sembrava quasi di doversi vergognare. I social network sono il media del presente e del futuro: i brand lavoreranno solo sui social, gli unici che consentono di veicolare messaggi autentici”.
La parola magica, quella che aprirà la caverna del tesoro ad Aladino, sembra quindi essere autenticità. Le persone vogliono cose autentiche. Stop. Giunti a questa – sorprendente? Ma dai! – conclusione sento già le voci degli amici informatici, quelli che te la menano con l’intelligenza artificiale, con l’algoritmo che meglio della maga Berenice “tutto vede, tutto comprende e tutto predice”. A questo proposito mi viene il soccorso la gentile signora Cathy O’Neil, genio della matematica che scrive articoli immagino ben retribuiti per Bloomberg News, la quale in un suo celebre saggio ammonisce: “Gli algoritmi altro non sono che opinioni tradotte in matematica”. Capito l’antifona? Siamo noi umani, come Pino e Gino i nerdazzi della porta accanto, che diciamo alla macchina che se piove è altamente probabile che le signore appena uscite dal parrucchiere abbiano bisogno di un ombrello (presto, proponiamo loro un paio di varianti!). Siamo sempre noi, Camilla e Gigina, le nerdazze del piano di sotto, che ipostatizzano le condizioni necessarie e sufficienti affinché chi ha acquistato “b” sia tentato dall’idea di portarsi a casa “c”. Eccetera, eccetera, eccetera.
E quindi? O meglio: and so what? come direbbero i nerdazzi che mangiano codice, focaccia e inglese internazionale. Allora è il caso – di nuovo come se fosse la prima volta – di tornare ai così detti basic, come direbbero loro. Cioè pensare alle persone vere e reali. Una delle vecchie definizioni di marketing che l’algoritmo non mi propone più suonava più o meno così: il marketing è il metodo (il sistema, l’approccio, la tecnica) per favorire i flussi. Stop. La foto che correda questo articolo è stata scattata a Clusone, nel supermercato Conad. Clusone è una ridente località semi-montana in provincia di Bergamo. Non parliamo quindi di esperienze compiute a New York e neppure nella mitica California, la terra dove le start-up spuntano come funghi e le big tech sono operose come castori fabbricieri.
Assisa in uno dei carrelli in dotazione (la traversina, gratuita, te la danno al banco soci anche se non sei socio) sorride compiaciuta la signorina Madeleine, per gli amici Maddie, nobile esemplare di Lakeland Terrier palesemente contento di partecipare al processo d’acquisto (nella foto in apertura). Sino a oggi in tutti gli altri punti vendita a libero servizio l’alternativa è aspettare guinzagliati all’ingresso oppure attendere nel parcheggio chiusi in auto. Non conosco i markettari del Conad. Non so neppure se Clusone sia un market test o il frutto del caso. La cosa di cui invece ho contezza è dove farò la spesa ogni volta che mi recherò nelle valli bergamasche. Saranno parecchie visto il caldo porco che l’estate promette.