Provate a immaginare. La fuga dal vostro Paese in guerra o devastato dalla violenza, il cammino per mesi in mezzo ai deserti, le torture nelle carceri libiche. E poi la partenza per mare, rischiando la morte ma con la speranza di una vita nuova.
Provate a immaginare. Di poter soccorrere dal naufragio persone disperate ma di essere costretti a sfidare i governi per portarle in salvo.
Salvarsi insieme (Ponte alle Grazie) è la storia di una missione umanitaria che ha fatto molto rumore. L’autrice è Alessandra Sciurba, filosofa del diritto, ricercatrice universitaria e presidente di Mediterranea Saving Humans, Ong impegnata in missioni di soccorso dei migranti.
Nel libro racconta tre giorni difficilissimi vissuti nel luglio 2019 a bordo del veliero Alex. Quando – contro tutto e contro tutti, a partire dall’allora ministro degli Interni Matteo Salvini – Mediterranea soccorse 59 tra uomini, donne e bambini. Salvandoli dal naufragio e dalla cattura da parte dei libici e caricandoli su un veliero di 18 metri, l’unico in mare perché l’altra sua nave, la Mare Jonio, era sotto sequestro probatorio da parte della procura di Agrigento. Dopo essere stata dissequestrata ad agosto 2019, la Mare Jonio ha fatto un’altra missione salvando 98 migranti. Poi è stata nuovamente sequestrata per l’applicazione del decreto sicurezza bis. Il tribunale di Palermo l’ha dissequestrata nel febbraio scorso, dopo cinque mesi di fermo.
Nessuna delle indagini ha mai portato ad alcun rinvio a giudizio.
Alessandra, tu racconti la storia di quei tre giorni di luglio 2019, passati tutti insieme, voi dell’equipaggio e 59 migranti, bambini, donne incinte, uomini provati dalle torture, terrorizzati dal pericolo di essere presi dalla guardia costiera libica e riportati nei centri di detenzione. In quei giorni in mezzo al mare, tra preoccupazione, pericolo, disagi anche grandi, scrivi di esserti sentita viva.
«Mi sono sentita viva come mai prima perché in quei momenti ho avvertito forte il senso della vita.
Una vita in cui metti a nudo tutti i tuoi limiti e insieme tutte le tue potenzialità e ti lasci intenerire dalla condizione umana per quello che è: una condizione di vulnerabilità da cui ci si salva solo insieme.
Una vita che ti attraversa con la forza del dolore, della bellezza, dell’ingiustizia ma anche della capacità di resistere. La “loro” capacità: è il coraggio delle persone che abbiamo tratto in salvo che ci ha resi coraggiosi. Che ha fatto sì che in quei giorni ciascuno di noi abbia dato il meglio.
Ricordo quando ci arrivò addosso la motovedetta libica. Ricordo il nostro impegno a portare a bordo tutti i naufraghi per evitare la loro cattura. Ricordo i nostri gesti, la calma, la serenità, la coordinazione in momenti che avrebbero potuto essere di concitazione e terrore.
Niente di eroico, sia chiaro. Eravamo, e lo siamo ancora oggi, persone normali che andiamo in mare per salvare persone straordinarie sopravvissute a situazioni inaudite».
Quando arriva la motovedetta della guardia costiera libica tu pensi “Da ciò che dirò dipende la vita delle persone che abbiamo soccorso”. E’ una responsabilità enorme.
«Responsabilità? Io non ho mai avuto dubbi su quello che avrei detto.
Erano loro, i migranti, che li avevano. Gli occhi di tutti erano puntati su di me quando, in piedi sulla Alex, con la radio in mano, ho gridato ai libici – e l’ho fatto con orgoglio – “Questa nave è territorio italiano”.
Solo in quel momento hanno capito che mai avremmo permesso che venissero presi. Che eravamo pronti a essere catturati con loro pur di proteggerli. E che ci siamo salvati insieme. Da lì, chiusa quella fase drammatica, è iniziata la nostra avventura. Con una felicità che non avevo mai visto.
Sapessi come cambiano gli occhi di una persona quando all’improvviso si rende conto di essere salva!
E noi, per far sì che quelle persone fossero salve, in quel momento stavamo combattendo contro il nostro governo. Perché quei criminali libici erano su una motovedetta italiana».
Tu hai detto: quando arriva un messaggio d’aiuto dal mare e i governi non lo raccolgono non è un incidente. È un omicidio.
«Certo che è un omicidio. Noi navighiamo in mezzo a corpi che galleggiano nel Mediterraneo. Quei corpi sono di uomini e donne che moltissime volte avevano lanciato un messaggio di aiuto.
L’ultima strage è stata a Pasqua quando per due giorni tutto il mondo ha saputo che c’erano persone che stavano annegando. Ha sentito la voce disperata di una donna che era riuscita a telefonare.
Eppure questa cosa non tocca più nessuno. Sono annegati in 12 ed è stata una morte non solo annunciata ma attesa, perché oggi l’opzione è: o si aspettano i libici o, se i libici non sono in zona, si fa finta di niente.
Quanto fastidio dà ai governi Alarm Phone, che è la voce di chi sta annegando».
Ciascuno di quei migranti ha un nome, un volto, una storia, una speranza di vita. Ma sembra che in tanti non vogliano capire. E’ anche per loro il tuo libro?
«Questo libro è stato scritto perché questa storia ha preteso di essere raccontata. E’ nato da sé. Io l’ho scritto pensando esattamente a chi non è d’accordo con me, come se si potesse non essere d’accordo con il fatto che tutte le vite contino e che ci sia un limite che non si può superare.
Mi sono detta: devi parlare con chi ti è distante, con chi ti insulta per quello che fai, e forse una storia “che fa salire a bordo” può essere la strada giusta.
Ma c’è anche un discorso di empatia strategica.
La battaglia tra noi, piccoli e pochi, e i governi e i miliziani che ci sono contro, rappresenta la battaglia tra chi crede che il potere politico, i calcoli economici, i traffici dello sfruttamento delle migrazioni debbano avere il limite del rispetto della dignità e dei diritti degli esseri umani, e chi pensa invece che quel limite non ci sia.
Dall’esito di questa battaglia non dipenderà solo la sorte di chi annega in mare ma quello che succederà a noi. E’ un laboratorio in cui si sta sperimentando fino a dove si può spingere il disprezzo per le persone e per i loro diritti».
Salvarsi insieme riecheggia le parole che Papa Francesco ha pronunciato a marzo, in piazza San Pietro, nei giorni peggiori della pandemia: “Nessuno si salva da solo. Su questa barca ci siamo tutti”.
«Ascoltando quel giorno Papa Francesco ho capito quale doveva essere il titolo del mio libro. Io non sono credente ma riconosco in Francesco un grande uomo. Se la politica è pensare al bene di una comunità, lui è l’unico politico in questo momento al mondo».
Come vedi la situazione oggi?
«Se quei tre giorni di luglio sono stati difficili, adesso è peggio.
Nella sua ultima missione la Mare Jonio, rientrata pochi giorni fa, ha navigato in mezzo ai cadaveri. La guerra si è spostata sull’acqua. Con le morti, la violenza, le esercitazioni militari dei turchi, i libici su motovedette italiane, istruiti dall’Unione europea, pagati dall’Italia e ora anche da Malta.
Andare in quel mare è andare in mezzo alla guerra dei potenti contro gli inermi. E quando difendi chi non vale niente anche tu non vali più niente.
Una cosa che ho provato fortissimo in quei tre giorni, abbandonati in mare e poi bloccati nel porto di Lampedusa, quando non ci davano da mangiare, non ci rifornivano di acqua. Quando in banchina ci è stato detto che non potevamo sbarcare perché il ministro degli Interni non voleva. Io sono una giurista, posso dirlo con certezza: che un ministro non volesse non significava nulla.
Voglio però aggiungere che sono stati giorni anche di grande bellezza. Sì, anche ci hanno contestato pure il diritto al sorriso, quello che si vede nella foto (in alto sotto al titolo, ndr) che ci ritrae pochi minuti dopo l’allontanarsi dei libici dalla Alex. “Guarda come ridono, e dicevano di essere disperati, di stare male” ci hanno scritto sui social.
Perché si può a malapena tollerare chi viene da lontano se è già morto oppure se rispecchia l’immagine della miseria e ti chiede implorando pietà. E non si sopporta che arrivino persone con la forza di sorridere e con i nostri stessi desideri e sogni. Persone che hanno una forza, una potenza, un progetto che davvero potrebbero rendere migliore il mondo.
Invece viviamo in un mondo rovesciato. La Libia è la macchia più grave sulla coscienza di questo Paese dai tempi del fascismo. L’Italia sta consapevolmente pagando miliziani che consegnano le persone agli stupratori dei centri di detenzione.
Se guardo avanti non vedo segnali positivi. Ma bisogna continuare a fare la cosa giusta, che non è necessariamente che tutti si debba andare in mare a salvare vite. Fare la cosa giusta è avere un modo diverso di vedere le cose e di vivere. Così il mondo sarebbe più bello, sarebbe un mondo di luce e di colore. Questo vorrei fosse il senso del mio libro».