Le parole con cui Livio Senigalliesi, uno dei fotoreporter più apprezzati a livello internazionale, racconta 30 anni di lavoro sui fronti di guerra hanno una potenza drammatica pari a quella delle sue foto.
Nei mesi scorsi il Museo Diocesano Carlo Maria Martini di Milano ha ospitato la mostra Diario dal fronte, curata da Barbara Silbe: 50 scatti realizzati da Senigalliesi per documentare i conflitti “dalla parte delle vittime, dalla parte di chi le guerre le subisce”, dalla ex Jugoslavia alla Cecenia, dal Medio-Oriente al Kurdistan, dal Kuwait all’Unione Sovietica, all’Africa, all’Ucraina. Un approfondimento è stato dedicato al Vietnam: ripercorrendo il sentiero di Ho Chi Minh, Senigalliesi porta i visitatori nello strazio degli effetti provocati sulle popolazioni dall’utilizzo dell’Agent Orange, nome in codice con cui l’aeronautica statunitense indicava il defoliante alla diossina con cui venivano irrorate le foreste dove si trovavano i Vietcong.
Obiettivo della mostra era far riflettere sul tema della pace, in concomitanza con la ricorrenza del 60° anniversario della Pacem in terris, enciclica di Papa Giovanni XXIII pubblicata nell’aprile 1963 per porre l’accento sui diritti dell’uomo, sul bene comune, sul rispetto dell’altro.
Il titolo riprende quello del libro Diario dal fronte, uscito nel 2020 e ora alla terza edizione, nel quale Senigalliesi racconta la sua vita e il suo lavoro. Per i fatti e per i nomi riportati, il volume è stato acquisito dal Tribunale per i crimini di guerra de L’Aja.
Livio Senigalliesi, 66 anni, milanese, ha iniziato il suo lavoro alla fine degli anni ’70 con foto sulle lotte operaie e studentesche, l’immigrazione, l’emarginazione, i problemi del Sud, la lotta alla mafia, per poi dedicarsi all’attualità internazionale.
Cosa raccontava la mostra?
La mostra raccontava le guerre per spiegare l’importanza della pace. Una pace che è un’utopia. Perché la storia dell’uomo è fatta di guerre. Ancora più che appassionato di fotografia io sono un appassionato di storia. È stata lei a portarmi in prima linea. Per poter vivere la storia mentre accade.
Com’era la tua vita in guerra?
Te lo spiego leggendo un passo del mio libro. È tratto dal primo capitolo intitolato Viaggio all’inferno e ritorno.
Nell’estate 1993 il settimanale L’Europeo mi aveva inviato a Mostar, città della Bosnia centrale. Musulmani e croati si sparavano furiosamente casa per casa. Dalle cime che dominano la vallata l’esercito di Mladic bombardava incessantemente abitazioni, chiese, moschee, ospedali. Mancavano cibo e medicinali, le sacche di plasma erano esaurite e si amputavano arti senza anestesia. Una macelleria. I convogli con gli aiuti umanitari erano bloccati dai bombardamenti. Giunto a pochi chilometri dalla prima linea il giornalista che mi accompagnava iniziò a dare in escandescenze per la paura e decisi di lasciarlo in un posto sicuro, un piccolo ristorante lungo la strada. Ripresi l’auto, fissai la scritta PRESS sul parabrezza e sui lati della carrozzeria, abbassai i finestrini e cominciai a guidare a forte velocità lungo la strada in discesa che portava in città. Alcuni soldati croati diretti al fronte mi chiesero un passaggio, mi faceva piacere avere compagnia, se fossi rimasto ferito almeno loro si sarebbero presi cura di me. Iniziammo a scambiare qualche battuta. La padronanza della lingua locale e qualche sorso di cognac aiutò a rompere il ghiaccio. Giunto nel centro cittadino diventammo presto l’obiettivo dei cecchini delle varie fazioni armate. Ogni cosa che si muoveva veniva considerato un target. Le strade erano piene di cadaveri e di auto in fiamme, guidavo come un pazzo evitando gli ostacoli fino a quando fummo colpiti in pieno da raffiche di Kalashnikov. Il parabrezza andò in mille pezzi e i soldati a bordo della mia auto iniziarono a rispondere al fuoco. Ivan stava seduto al mio fianco, caricò la mitragliatrice e sparò lunghe raffiche verso le finestre da cui provenivano i colpi. Tutto avveniva in un battibaleno. E io continuavo a schiacciare sull’acceleratore in uno stato di trance. Arrivati in fondo alla strada svoltai istintivamente a sinistra e mi infilai in un portone. La macchina era ridotta a un colabrodo. Ma noi eravamo incredibilmente vivi.
Ecco, questa era la mia quotidianità.
Hai corso pericoli grandi.
Ne ho passate parecchie. Due esempi tra tanti. A bordo di un C130 tra Ancona e Sarajevo, colpito dalla contraerea, ho rischiato di precipitare. A Pristina, in Kosovo, sono finito davanti a un plotone di esecuzione, era il 1999, e mi sono salvato solo perché sono riuscito a comunicare nella lingua del posto. Parlavo serbo-croato e anche albanese, che mi aveva insegnato la famiglia dove vivevo. Sapere la lingua è fondamentale, ti dà un rapporto diverso, più stretto, con la gente che devi raccontare. Io ho sempre voluto vivere con le persone, con loro e come loro. Ho voluto condividere i miei giorni con i soldati, con cui sono stato in trincea e in prima linea, e non – come tanti hanno fatto – raccontare le guerre “da lontano”, da un albergo. È la mia etica: tu sei dentro la storia, devi esserlo, poi la fotografi. Mi hanno detto che il mio modo di fare giornalismo è simile a un metodo antropologico, “vivere la gente secondo i canoni dell’osservazione partecipante” così l’hanno definito. In altre parole: la guerra la racconti facendo parte della comunità di chi è sotto attacco. Hai fame come loro, soffri il freddo come loro, sei sotto il tiro dei cecchini come loro, e documenti le vite e la loro resistenza. Un mese dopo l’altro, un anno dopo l’altro. Come a Sarajevo, dove ho trascorso tre anni di assedio e due anni di dopoguerra. Il mio lavoro è un pezzo di storia. E il mio libro di memorie è stato richiesto dal Tribunale dell’Aja perché contiene fatti e nomi sui quali si sta indagando.
Hai seguito 25 diversi conflitti. Le guerre sono tutte uguali?
Ogni guerra ha le sue motivazioni. Ma per la gente che le subisce sono dolore, sangue, lacrime, fame, freddo, terrore, stupro, sopportazione, disperazione. Per tutti. Sempre.
Tu hai voluto raccontare persone e situazioni molto difficili, anche da raggiungere.
Sì, sempre. In Cecenia tentai più volte, anche grazie ai miei rapporti con Mosca (c’ero stato in occasione del golpe del 1991, con un permesso speciale, riuscendo a fotografare Gorbaciov mentre veniva arrestato dal Kgb) di ritrarre le condizioni della popolazione. Ma i russi non volevano che documentassi ciò che accadeva, a partire da Grozny, dove ogni notte migliaia di giovani ceceni venivano portati via dalle loro case, giustiziati e buttati in fosse comuni. Dopo aver passato settimane nelle caserme russe o dentro i carri armati, dove non potevo vedere niente né avere contatti con la gente, mi venne un’idea folle. Tornai a casa e poi andai in Inguscezia dove aveva base una Ong che ogni mese portava – autorizzata dalle autorità russe – aiuti alla popolazione cecena. Fui inserito come personale medico nella lista di chi faceva parte del convoglio umanitario.
Superammo 25 posti di blocco, sotto il camice bianco avevo con me un corpo macchina e un obiettivo in tasca e 4 pellicole nelle calze. Se mi avessero scoperto sarei stato passato per le armi. Ma solo in quel modo ebbi l’opportunità di entrare nelle case bombardate di Grozny. E nelle cantine, trasformate in ospedali da campo pieni di cadaveri e di feriti che urlavano. I chirurghi operavano, la gente moriva di setticemia, si cercava di salvare chi aveva qualche speranza. Tre giorni e tre notti da incubo che ricordo come fosse oggi.
È stato così anche per le vittime del Vietnam. Ancora oggi, a causa degli effetti della diossina altamente tossica irrorata dagli americani, 4 milioni di bambini soffrono della sindrome dell’Agent Orange. Una maledizione per sempre, perché quella sostanza ha modificato il Dna. Ho visto e fotografato bambini nati con due teste e altre terribili malformazioni. Questo per dirti quanto grande fosse la mia determinazione.
Qual è stata la tua ultima missione?
In piazza Maidan a Kiev, nel 2014. Una delle foto era in mostra al Museo Diocesano (in alto, l’immagine in apertura, ndr). In quei giorni mi accorsi di fare fatica a respirare. All’ospedale di Kiev mi consigliarono di tornare a casa. Ho scoperto così di avere una malattia grave ai polmoni causata da quanto ho respirato in 30 anni di guerre, uranio impoverito, diossine, nano particelle, gas venefici.
E poi?
Mi sono dedicato a reportage di approfondimento, per esempio in Bielorussia, dove era importante la mia esperienza nel sapersi muovere in contesti difficili ma senza lo stress della guerra e del pericolo.
Ti manca quello stress?
Ho rischiato troppo. Come diceva Susan Sontag, ho visto troppo dolore attraverso il mio obiettivo. Troppa morte nei miei occhi. Da anni vivo di incubi notturni.
Tu ora ti dedichi alle scuole, ai giovani.
È stato il libro a portarmi nelle scuole. In copertina dell’edizione italiana c’è una foto che mi ritrae a Vukovar nel 1991 (“quando questo vecchio pazzo era giovane” dice ridendo, ed è l’unica volta che lo fa in tutta la nostra conversazione, ndr). Ho cominciato a essere chiamato alle medie e alle superiori, anche con lezioni via web durante la pandemia. E poi è iniziata la collaborazione con le università, a Milano insegno giornalismo alla Cattolica e antropologia visuale alla Bicocca. A Oslo, alla facoltà di antropologia, racconto il disastro umano della guerra.
Oggi cosa vuoi?
Lanciare un appello, non solo per la pace ma anche perché non si usino armi devastanti contro popolazioni che ne pagherebbero il prezzo per sempre. L’ho visto in Vietnam, l’ho visto a Hiroshima dove ho incontrato sopravvissuti all’esplosione atomica che all’epoca avevano 3 anni e che ricordano tutto. Nel mio libro, che ho autoprodotto proprio per avere totale di libertà di contenuti, racconto cose che nessuno ha mai detto su quello che è stato il più grande crimine di guerra mai avvenuto. Tra gli orrori, anche quello dei bambini sopravvissuti alle radiazioni nucleari, messi in orfanotrofi speciali e da lì portati dagli americani nei laboratori del deserto del Nevada per essere studiati, come cavie, per capire perché fossero vivi. Tutto questo ho voluto documentare perché non si devono dimenticare colpe e responsabilità.
E a chi oggi parla con leggerezza di un eventuale uso dell’arma atomica tattica nel conflitto tra Russia e Ucraina, io dico: è assurdo, sarebbe l’apocalisse.
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