Per la mia generazione, Flavio Bucci è stato Ligabue, certo, ma pure il pianista cieco di Suspiria, anche se lì aveva nascosti gli occhi, indimenticabili, e soprattutto fu lo stralunato protagonista di Maledetti, vi amerò, esordio fulminante più per tempismo che per arte di Marco Tullio Giordana nel 1980.
Bucci era Svitol, un fuori corso dalla vita che si ritrovava in un’Italia e in una sinistra (armata) che non riconosceva più. Pedalava dalle parti della Statale di Milano, col suo cappello peruviano (anzi venezuelano), e divenne l’emblema del cosiddetto Riflusso – detto di sfuggita, Giordana toppò subito dopo con il pretenzioso mélo sul terrorismo La caduta degli angeli ribelli prima di ritrovarsi e spopolare con La meglio gioventù.
Comunque. Le interpretazioni di Bucci al cinema e in tv, e in teatro, dove eccelleva, riempiono fino agli anni Zero le schermate di Wikipedia. Tutti ricordano, appunto, il Ligabue tv di Salvatore Nocita, sceneggiato popolare di culto, pochi una delle ultime apparizioni, il Franco Evangelisti ne Il divo di Paolo Sorrentino.
Bucci era un grande attore che passa adesso per un caratterista, forse anche perché aveva fatto una grande, grandissima scomparsa, prima di morire solo, per infarto, il 18 febbraio 2020 a Passoscuro – tratto litoraneo a nord-ovest di Roma nel Comune di Fiumicino. Quasi per una beffa, stava per concretizzare un ritorno teatrale con uno spettacolo autobiografico, scritto insieme a Marco Mattolini, dal sarcastico titolo E pensare che ero partito così bene.
Aveva contribuito a riaccendere le luci su di lui il documentario Flavioh, scritto e diretto da Riccardo Zinna, presentato alla Festa del cinema di Roma del 2018. Diceva Bucci, “giammai borioso, perché la vanagloria è il nutrimento dei privi di talento”: “Il mio viaggio l’ho compiuto al massimo di quello che volevo ottenere dalla mia esistenza umana. Quello che hai di fronte è un uomo realizzato, con tutte le sue colpe”. Soltanto verso la metà del documentario, girato on the road, accompagnando l’attore a bordo di un camper da Torino ad Amsterdam, per i luoghi della sua giovinezza, si parlava senza morbosità di eccessi, di droghe e di alcol.
Flavio Bucci aveva raccontato spavaldamente ai giornalisti quando lo avevano stanato lì, a due passi da Fregene, dove sopravviveva in povertà: “In teatro guadagnavo anche due milioni al giorno. Per fortuna ho speso tutto in donne, vodka e cocaina. Scarpe e cravatte che non mettevo mai. Mi sparavo cinque grammi di coca al giorno, solo di polvere avrò bruciato 7 miliardi. L’alcol mi ha distrutto? Lasci perdere discorsi di morale, che non ho. E poi cos’è che fa bene? Lavorare dalla mattina alla sera per arricchire qualcuno?”.
Grande, pazzo, saggio Flavio Bucci. Chi vuole ritrovarne non la spavalderia nichilista ma lo charme da uomo di mondo – e riscoprirne la voce e la delicata gentilezza con cui porge alla telecamera considerazioni non banali sul superamento di una crisi e su un’allora recente paternità -, ripeschi un’intervista notturna con Marzullo, disponibile su RaiPlay.
L’immagine in alto, che data ai Settanta e sembra allo stesso tempo reale e simbolica, con quella fiamma che incendia un diecimila lire, è un fotogramma da La proprieta non è più un furto di Elio Petri