Era tutto facile quando le maglie dei giocatori andavano dalla numero 1, quella indossata dal portiere, alla numero 11. Semplice anche riconoscere i ruoli: il numero 2 toccava al terzino destro, il 3 al sinistro fluidificante, il 4 era il mediano di centrocampo (sì, proprio quello della canzone di Ligabue), il 5 era lo stopper, il 6 il libero, il 7 l’ala destra tornante, l’8 la mezz’ala, il 9 il centravanti, il 10 il regista (Rivera, tanto per fare un nome a caso), l’11 l’ala sinistra. Tutto chiarissimo.
E ogni squadra indossava rigorosamente i proprio colori: il Milan il rossonero, l’Inter il nerazzurro, la Juventus il bianconero, il Torino il granata, il Napoli l’azzurro e così via. C’era poi il dovere di ospitalità che imponeva alle squadre di casa di cambiare la divisa quando c’era il rischio di confondersi con quella degli ospiti. Poi divenne diritto di ospitalità, nel senso che era la squadra ospite a dover indossare la seconda maglia.
Quindi arrivò la televisione e con essa l’esigenza di chiarezza: in bianco e nero Napoli e Lazio non potevano affrontarsi con le loro maglie originali, troppo simili al punto da crerare confusione. Andò un po’ meglio con l’introduzione della tv a colori.
Ma siccome non si può mai stare tranquilli, ecco la nuova rivoluzione: le maglie personalizzate, con il numero scelto dal giocatore per tutta la stagione e il nome scritto sulle spalle, in modo da rendere i calciatori più riconoscibili allo stadio ma anche in tv.
Questo scatenò i geni del marketing: quando David Beckham passò dal Manchester United al Real Madrid furono vendute nei primi sei mesi un milione di magliette con il numero 7 e il suo nome. Incassi favolosi, che contribuirono a ripagare parte del ricco ingaggio del giocatore inglese.
In Inghilterra, dove il merchandising costituisce uno degli introiti principali delle società di calcio, anche grazie all’assenza della contraffazione (tutto il materiale che si vende viene dai negozi ufficiali), gli incassi dalle vendite di magliette ammontano ogni anno a diversi milioni di sterline.
Ogni squadra ha ormai tre maglie: una per le partite casalinghe più altre due da utilizzare fuori casa o in certe competizioni. E naturalmente ogni anno gli sponsor tecnici studiano nuovi modelli per costringere i tifosi più accaniti ad aggiornarsi.
Le esigenze del marketing hanno ormai raggiunto effetti comici: può accadere (è accaduto) che in un derby tra Milan e Inter nessuna delle due squadra indossi la sua maglietta tradizionale. Il motivo? Che bisogna vendere le altre.
In vista della prossima stagione sono già state presentate le nuove divise ufficiali, che non hanno mancato di suscitare parecchie perplessità. La terza maglia della Juventus è un arancione sporcato da “briciole” nere. Cosa c’entri con la tradizione Juve è un mistero.
Ma il massimo l’ha ottenuto l’Inter: la prima maglia non sarà più a righe nerazzurre verticali, ma una sorta di scossa elettrica a forma di zig zag. Le seconde maglie sono una a righe orizzontali grigie e nere, riedizione di quella indossata da Ronaldo il Fenomeno nella finale di Coppa Uefa contro la Lazio nel 1998. L’altra sembra uno schema delle parole crociate: riquadri bianchi delimitati da sottili righe nere e azzurre. Se sotto ci mettono le definizioni, il tifoso può provare a completare il cruciverba.
Insomma, se non lo avete ancora capito, ormai la tradizione ha ceduto di schianto di fronte alle esigenze del marketing, le cui logiche fanno spesso a cazzotti col buonsenso.
Ma questo è il calcio di oggi, prendere o lasciare. Chi è romantico può tranquillamente cambiare sport.