Arrivai a Milano la sera di una domenica di agosto del 1964; ero in macchina e dovevo andare in viale Gorizia ospite in casa di mio zio (Elio Vittorini, ndr). La città era semideserta. Provenivo da Livorno, dove vivevo con i miei. Ebbi difficoltà a trovare quell’indirizzo, perché mi aspettavo un viale alberato. Invece gli alberi non c’erano: in seguito mi venne spiegato che le piante erano state sradicate e tagliate durante la guerra per dare legna da ardere alla popolazione, come era avvenuto in viale Monza e viale Sarca.
Ero già stato a Milano, senza far caso ai viali senza alberi. La prima volta che vi arrivai da adolescente mi colpirono subito alcuni simboli della città: la brutta facciata della stazione centrale in stile faraonico littorio, come la definivano i critici, che contrastava con la razionale bellezza del grattacielo Pirelli; il Duomo che fu una delusione messo a confronto con le cattedrali romaniche pugliesi e con quelle rinascimentali della Toscana che ero abituato a vedere. Dopo mi sono ricreduto.
A partire da quella domenica di agosto mi sarei fermato a lungo a Milano, precisamente 30 anni. Il mattino dopo ero atteso alla Banca Commerciale in piazza della Scala, dove ero stato assunto, fresco di laurea in Scienze politiche.
Ricordo che in quel periodo era in voga la canzone dei Gufi Io vado in banca, stipendio fisso, ma avevo previsto già in partenza di lasciare presto quel lavoro che consideravo un ponte per raggiungere il mio vero obiettivo: fare il giornalista.
Mi sposai pochi mesi dopo l’arrivo con la mia fidanzata livornese, anche lei desiderosa di affrontare l’avventura milanese. Venne assunta in seguito nella libreria Feltrinelli di via Manzoni. Trovammo subito casa in via Laghetto, che fiancheggia l’Università statale. A quei tempi era facile trovare casa a Milano: bastava percorrere la zona desiderata per vedere su tanti portoni i cartelli con la scritta affittasi.
Nei primi mesi la via era tranquilla, vi passava anche un silenzioso filobus che andava verso piazza Santo Stefano e poi in via Larga. Consideravo quel quartiere molto accogliente: la piazza, le stradine, largo Richini con l’Università, davano l’impressione di vivere in una bella città di provincia, come risultava anche in altri quartieri di Milano, ognuno con le sue caratteristiche ma che tutti insieme formavano una metropoli tranquilla, ospitale e umana. Tranne il pieno centro – le ben note vie Montenapoleone, Spiga, Manzoni, corso Venezia e altre – nei vecchi quartieri viveva una società mista senza distinzioni di classe, con i mercati rionali, i vecchi negozi, le latterie piastrellate di bianco dove con meno di 500 lire si poteva mangiare bene. E poi c’erano le trattorie, i ristoranti particolari, sempre a buon prezzo, come Lo scoffone, vecchio di un secolo e mezzo, specializzato in cucina austriaca.
Ricordo che in corso Europa c’era un moderno e grande ristorante di cui mi sfugge il nome, realizzato come un antico anfiteatro, con i tavoli disposti su gradoni che scendevano sin giù alla platea dove si cucinava. Eccezionale era la Casa Iran, in viale Majno, famosa per la cucina di quel Paese e per il caviale a prezzi avvicinabili. Venne chiusa nel 1979, immediatamente dopo la rivoluzione khomeinista. Sui navigli abbondavano le proletarie case a ringhiera, i magazzini degli artigiani, vecchi negozi, librerie dell’usato. Si sentiva parlare spesso in dialetto milanese che a me, nato in Puglia e poi trasferito in Toscana, pareva una lingua dolce, mai urlata.
Piazza Santo Stefano si animò la sera con l’apertura del Tencitt – a pochi metri, in via Laghetto – un locale ricavato da un antico deposito di carbone, dove si mangiava e si suonava musica. Subito dopo nella piazza arrivò Strippoli, una pizzeria creata da un ex militante comunista barese, dove introdusse anche le mozzarelle freschissime, la burrata di Andria e altri prodotti pugliesi allora semisconosciuti e ovviamente orecchiette con gli strascinati.
La mia permanenza in banca durò quasi tre anni, molto più del previsto: non era facile entrare in un giornale. Questo mi aveva procurato un periodo di depressione provocata anche dalla morte prematura di Elio Vittorini. Mi dette coraggio Vittorio Sereni il quale mi disse: “Milano all’inizio ti morde, ma dopo ti abbraccia”.
E mi feci abbracciare dalla città. Uscito dalla banca nel tardo pomeriggio, facevo tappa alla libreria Feltrinelli e poi alla Einaudi, nella galleria Manzoni. Gestiva quest’ultima il cognato dell’editore, Vando Aldrovandi, un uomo coltissimo e gentile che aveva trasformato il grande negozio in un centro culturale dove si incontravano i protagonisti della letteratura e dell’arte, da Cassola a Bassani, da Sciascia a Guttuso. Spesso andavano a cena non al rinomato Rigolo, ma nelle antiche trattorie a buon prezzo coinvolgendo anche me, un semplice giovane bancario, e mia moglie.
La Feltrinelli era invece luogo di appuntamento dei giovani del Gruppo ’63, quello della neoavanguardia: Alberto Arbasino, Nanni Balestrini, Umberto Eco, Achille Bonito Oliva, Edoardo Sanguineti, Giuliano Scabia, Franco Quadri che pubblicò il Manifesto per un nuovo teatro e tanti altri. Vi aderì anche Luigi Nono compositore di musica dodecafonica e sperimentale, genero di Arnold Shönberg. Si ritrovavano assieme ai “rivali” della libreria Einaudi nei dibattiti della Casa della cultura in San Babila. Noi giovani “aspiranti intellettuali” ci davamo spesso appuntamento al bar Jamaica di via Brera dove incontravamo tra i tanti Luciano Bianciardi, che stava scrivendo La vita agra o l’artista Piero Manzoni, quello delle scatolette merda di artista.
Poi c’era il cinema, con le sale d’essai in Corso Magenta, in via Torino, Porta Romana; la rotonda della Besana con i primi spettacoli di Dario Fo e Franca Rame; il Piccolo Teatro di Strehler. L’apertura del Piper, alla Triennale, portò la rivoluzione della musica pop: si ballava e si ascoltavano la giovanissima Patty Pravo, Lucio Dalla e nel ’68 si esibì anche Jimi Hendrix. Il termine discoteca non era ancora arrivato e fuori del locale non esistevano ancora gli spacciatori. La droga non era diffusa come oggi.
Poi quasi all’improvviso i grandi avvenimenti che cambiarono il volto di Milano: ne furono i simboli più evidenti la contestazione studentesca che già si manifestava prima del Maggio francese e nel ’69 la bomba di piazza Fontana con l’arresto di Pietro Valpreda e la strana morte di Giuseppe Pinelli.
A fine ’67 finalmente lasciai la banca: su segnalazione di un amico ottenni un colloquio col direttore del settimanale Tempo, Nicola Cattedra, il quale mi offrì l’unico posto disponibile, quello di archivista. Accettai subito e lo mantenni per 6 mesi dopo i quali fui nominato segretario di redazione e dopo altri sei arrivò finalmente l’assunzione a giornalista praticante e dopo un anno e mezzo professionista.
Quel giornale fu importante per la mia formazione: in redazione lavoravano Ermanno Rea, Guido Vergani, Paola Fallaci sorella di Oriana, Claudio Zucchelli, ex partigiano, poco noto nel top dei giornalisti più noti ma che noi chiamavamo l’enciclopedia umana per la sua vasta cultura. I primi tempi avevo il compito di “passare” gli articoli dei collaboratori, quelli di Padre Turoldo, di Pasolini che su Tempo teneva la rubrica Scritti corsari, trasferita poi al Corriere con lo stesso titolo dopo la chiusura di Tempo.
Con l’estendersi della protesta studentesca, via Laghetto era diventata invivibile: la polizia presidiava piazza Santo Stefano e le cariche contro gli studenti avvenivano quasi tutti i giorni con grande generosità di manganelli e gas lacrimogeni. Lasciai via Laghetto e mi trasferii in via Vivaio, quartiere residenziale, trovando un appartamento col solito sistema dell’affittasi attaccato al portone.
I presidii delle forze dell’ordine erano invece scarsi in San Babila dove spadroneggiavano giovani neofascisti pronti ad aggredire chi all’edicola prendeva l’Unità o il manifesto, mentre gli agenti guardavano dall’altra parte. Qualche tempo dopo anche chi comprava il Corriere della Sera diretto da Piero Ottone fu inserito tra le vittime dei picchiatori, grazie a Indro Montanelli il quale dal suo Giornale appena fondato, attaccava tutti i giorni il Corriere definendolo comunista. Era la risposta al licenziamento voluto da Giulia Maria Crespi che lui aveva definito la zarina.
Entrai nel quotidiano di via Solferino su segnalazione di un collega del Tempo assunto prima di me. Venni ricevuto da Ottone, uno gentiluomo e uno dei migliori direttori del Corriere. Andò via con l’arrivo nel giornale della P2. Poi la crisi: Il successore, Franco Di Bella iscritto alla loggia; lo sciopero dei giornalisti che lo costrinsero a dimettersi; l’amministrazione controllata del giornale; il salvataggio arrivato dalla Fiat di Gianni Agnelli. Poi direttori mediocri.
Con l’arrivo dei socialisti in Comune con l’appoggio del Pci, Milano non era più quella di un tempo. Le grandi industrie come la Falk, la Pirelli, la Marelli, si erano trasferite; alle industrie era subentrato il terziario; i quartieri popolari del centro, come la zona tra via Solferino e corso Garibaldi erano stati sconvolti dalla speculazione edilizia e gli abitanti scacciati dalle case. Con la legge sull’equo canone gli affittasi sui portoni erano scomparsi.
L’ultimo trasloco fui costretto a farlo in un palazzo moderno in fondo a via Missaglia, in una periferia anonima che avrebbe potuto trovarsi in una qualsiasi parte dell’Europa. Si era ormai nella piena “Milano da bere”: Mario Melloni, ex direttore dell’Unità che in prima pagina teneva la rubrica satirica Fortebraccio disse in un’intervista che a Milano “i socialisti bevevano champagne in salotto, mentre i comunisti gazzosa in portineria”. Era una profezia sulla nascita del Pd?
Nella foto di apertura, Milano vista dal 31esimo piano del Pirellone. Credit: I Gufi, Italian magazine Radiocorriere. Pzza Fontana, ufficio stampa Rai. Milano dal Pirellone by mchicco is licensed under CC BY-NC-SA 2.0.