Il romanzo di Michael Bible (non è uno pseudonimo) cerca dignità e senso in un passato remoto, che è rimasto in memoria nel Sud degli Stati Uniti.
Basta una frase per comprendere come butta: a pag. 100 di The Ancient Hours – edito da Adelphi come L’ultima cosa bella sulla faccia della terra nella traduzione di Martina Testa – Bible scrive: “La pioggia cadeva con autorevolezza veterotestamentaria”. Cade tra l’altro su una nuova generazione perduta.
Esistono occasioni in cui uno scrittore giovane e brillante – nel caso, un newyorchese di nascita ma originario della cosiddetta Bible Belt (appunto) – deve schiarirsi la voce e indossare l’abito scuro, neanche fosse un pastore battista, per conquistarsi i lettori, specie se narra una storia già molte volte letta, in cui la religione sopisce o incendia (letteralmente) le anime nella cittadina di Harmony (altro nomen omen) in North Carolina. Di un personaggio, Bible dice: “Il nastro della sua vita si riavvolse fino al momento in cui aveva cominciato a credere in Dio”. O a smettere di crederci.
È facile, leggendo, dare fiducia a Bible quasi fosse un nipotino di Flannery O’Connor, ricordando della scrittrice di Savannah il tema violenza/religione in racconti che scoppiano come congegni a orologeria – penso a Good Country People o a The River. I protagonisti e i caratteristi di The Ancient Hours, come quelli di A Good Man is Hard to Find di O’Connor, sono “…sopravvissuti a tempeste diverse e naufragati sulla stessa riva”.
Ma O’Connor o Faulkner sono nomi feticcio che rischiano di schiacciare Bible, in specie quando stecca. Gli può capitare di eccedere in sentenziosità, mentre narra l’atarassia apparente di una generazione intossicata da antidolorifici ed eroina e dal vuoto pneumatico di un “non luogo” geografico – ma purtroppo un “non luogo” non dimenticato da Dio; sopravvalutando il chiarore delle diverse epifanie con cui rompe il buio, Bible può sostenere che “l’amore e il dolore non erano poi tanto diversi”. O che “…il piacere a questo mondo esiste di rado senza il dolore”.
Già. Peccato veniale anche per un predicatore. Continuiamo pure a seguire Bible in “quella notte […] buia e strana come tante notti del profondo Sud” fino alla pacificamente intollerabile constatazione che non si può sfidare il tempo, che dopo di noi anche la nostra lapide “diventerà polvere e non esisterà più nulla”. Ecco: va così, capito perché piove nel modo che si è detto sopra?
The Ancient Hours è costruito da quattro parti, quattro racconti ambientati ad Harmony e collegati tra di loro pur se potrebbero essere letti come testi autonomi.
Il centro del romanzo, un terzo di esso, è occupato dalle cinquanta pagine della lettera di un condannato a morte, il ragazzo Iggy. All’alba del 2000, voleva darsi fuoco come un monaco che protesta, ma ha finito per uccidere 25 fedeli, incendiando la chiesa dove, uscito da un centro di rehab, fingeva di essere un buon cristiano. “Forse ero così insensibile che volevo provare qualcosa, anche solo il dolore altrui”.
Non aspettatevi il rozzo stream di coscienza di un pazzo. Oppure lo sbobinamento di un documentaristico tranche de vie. La versione di Iggy fiorisce come un delirio persino gentile, è il discorso di un santo o di un idiota ispirato, a tratti immerso, più che in un incubo, in un’atmosfera trasognata.
Prima di morire, il ragazzo vuole avvisarci che la vita tradisce tutti. Le sue ultime parole riecheggiano curiosamente la frase finale del ben più mansueto Holden Caulfield di The Catcher in the Rye: “Se c’è qualcosa che amate tenetevelo stretto, perché non si può mai sapere quando arriveranno a portarvelo via”.
Al proposito: colpiscono i richiami culturali di Iggy, cresciuto leggendo a caso tutto quello che trova in una biblioteca. Nel discorso di Iggy/Bible, compare una cascata di nomi e titoli, di libri, di film e di canzoni, un elenco di materiali usati per vincere la noia di una vita fatta per morire, dove le droghe sono forse solo l’altra faccia di un improduttivo e inutile consumo.
Iggy legge vede e ascolta, grandi americani solitari o conterranei, Dickinson e Faulkner, ma cita anche Pasolini e Fellini. L’amica Cleo, che forma con lui e Paul, il figlio del pastore, un terzetto di adolescenti tossici e in qualche modo innamorati, confusi in mezzo a tanti scontati goth degli anni Novanta, rammenta a Iggy la donna de La strada (Gelsomina!), mentre curiosamente Iggy non riconosce una ragazza effigiata sulla T-shirt di Cleo (Carrie!).
Iggy, ascoltando Lou Reed e Bach (“una delle sue cose tristi per violoncello”), vive ed è vissuto nell’onda della Costante, definizione di Cloe per designare una sorta di mood esistenziale, quasi mistico. La Costante è un senso di “struggimento continuo e di terrore improvviso. Come un pomeriggio di pioggia con il sole che splende o il ronzio misterioso di una strada deserta di notte”. È anche una buona descrizione del modo in cui è scritta la lettera – ovvero di come scrive Bible per interposto Iggy – con qualche leziosità poetica di troppo, aspettando insieme al boia la caduta degli ultimi fiori di un corniolo.
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Termino con due righe in originale, per sentire la voce del ragazzo: “In six days, I’ll be weightless,” he writes from prison. “Like a dog chases rabbits in his sleep, I pine for Cleo and Paul. I dream of getting high and shooting roman candles with them from the top of a speeding freight train, racing through the night. … I dream of gladiolus tall as swords in shop windows”.
Michael Bible è autore di tre libri, di cui The Ancient Hours è il primo ad apparire da noi. Aspetto con curiosità gli altri, che sono Empire of Light e Sophia (Melville House Books).