La vecchia quercia, The Old Oak del titolo, è l’insegna – di cui non si riesce a tener diritta la K – di un pub scalcinato, il cui proprietario, TJ (Dave Turner), pare un uomo d’altri tempi, forse di un altro secolo (ma certo: è un uomo del Novecento!). Ormai deluso dalla vita e quasi pronto a chiuderla lì, implodendo nella depressione, tra un giro di pinte e una chiacchiera con i pochi e scazzati avventori, ritrova invece il vizio di tener diritta, insieme alla K dell’insegna, la sua schiena.
Il paesaggio sociale è desolato, non aiuta: siamo in un paesino del Nord Est dell’Inghilterra, nella contea di Durham, in una zona già orgogliosa delle sue miniere e ora popolata da ex minatori in bolletta. Proprio qui, per la maledizione del caso – ma anzi no, per le logiche del mondo come dovremmo conoscerlo e accettarlo oggi – approda un pullman di profughi siriani, subito trattati come orrenda gentaglia, pur se tra loro brilla la gentilezza di Yara (Ebla Mari). La ragazza è un’aspirante fotografa e cerca di non soccombere ai mugugni razzisti e ai dispetti degli anziani e scassati working class men. Però, c’è JT che…
E qui prendo per buone le parole della mia amica Giovanna Fumarola: avverte che la vecchia quercia – quella che farà il miracolo (forse) di riattizzare la solidarietà tra proletari derelitti di ogni latitudine e credo – non è JT, ma il regista Ken Loach in persona; il maestro inglese, ormai 87enne, con un linguaggio sempre più essenziale, timbra ancora una volta il cartellino nella fabbrica del cinema (piccolo o grande che sia non importa: è cinema lucido, sincero, da battaglia) e si illude e ci illude un’altra volta che si può scendere in piazza, partecipare e lottare. A proposito del rapporto tra forma e contenuto del film, mi ha colpito un’osservazione del critico Peter Bradshaw del Guardian: “Thirty years ago, the mischief makers of von Triers and Dogme 95 were talking about radical minimalism. They didn’t stick to it; Loach did. I hope that this isn’t Loach’s final film, but if it is, he has concluded with a ringing statement of faith in compassion for the oppressed”.
Comunque. Servito dal fido sceneggiatore Paul Laverty, Loach negli ultimi cinque anni ci ha offerto la riflessione di titoli quasi a tema, svariando dal disastro del moderno welfare inglese di Io, Daniel Blake al maledetto lavoro “senza padrone”, da free lance, di Sorry We Missed You: due film bellissimi perché incredibilmente tesi e limpidi.
Oggi, Loach cammina metaforicamente insieme a JT e alla sua disperazione, e ci porta in riva a un mare gelato con al guinzaglio il fido quattro zampe, Marra – fate attenzione al perché si chiama così – ma, dopo molto ragionare e discutere, gridare e borbottare, finisce con l’appendere all’insegna del suo cinema una bandiera rossa. L’ultima sequenza di The Old Oak è addirittura – se non facesse sorridere il paragone – morettiana. Commenta uno spettatore sul web: “The Old Oak serves as a fitting – albeit somewhat sentimental – finale to a remarkable career”. Bene così.