Artefatta e inverosimile? Sicuramente. Troppo zuccherosa? Non c’è dubbio. Prevedibile sin dal primo episodio? Innegabile. La vorremmo diversa? Ma per nulla al mondo. Così, nella sua terza stagione (La Regina Carlotta fa storia a sé), Bridgerton torna a essere il nostro microcosmo preferito, con la sua coloratissima ed esilarante nobiltà, i suoi balli di società tra il sublime e il grottesco, i suoi futili intrighi, le sue «relazioni pericolose» innocue come trastulli, i suoi colpi di scena cui facciamo finta di credere, già sapendo che nessuno, in realtà, corre il minimo rischio.
Ne scriviamo adesso dopo che molti lo avranno già visto, quindi ci permettiamo di scriverne senza alcuno scrupolo di rivelare chissà che. Così, la vicenda del disvelamento di Lady Whistledown, gossippara dalla lingua tagliente calata in una immaginaria società londinese della prima metà dell’800, procede non risparmiandoci nessuno degli ingredienti che hanno decretato il successo della serie.
Primo fra tutti, un «ecosistema» multietnico in cui conti duchi e marchesi appartengono a ogni etnia: sui prati morbidi come seta e nei sontuosi salotti si alternano amabilmente volti e corpi africani, asiatici, occidentali. Danzano, si corteggiano e si sposano tra loro come in un eden dove razzismo e paura del diverso semplicemente non esistono; all’insegna del politicamente corretto, certo (la sceneggiatrice e produttrice Shonda Rhimes è afroamericana), ma il primissimo – e perdurante – effetto è stato quello di un straniamento che poteva venire solo da un’immaginazione più fiabesca che furba.
Subito dopo, l’ossessione del matrimonio perfetto, questo sì fedele alle necessità dell’epoca, dove le madri di famiglia di austeniana memoria si ingegnano, con sospiri, sorrisi, speranze, trucchi e inganni, a maritare le figliole con un esemplare maschile di consistenti mezzi prima che dotato di cuore, gentilezza o intelligenza (ma noi sappiamo che le nostre eroine predilette seguiranno i palpiti d’amore e non le tracce del denaro).
Ma basta grattare poco al di sotto di questo minuetto cinico o romantico, a seconda dei casi, per trovare fremiti di liberazione femminile proclamati dalle stesse madri che spingono le loro ragazze tra le braccia «giuste»: in sintesi, il ragionamento è «noi donne in questa società non possiamo avere libertà e potere, possiamo solo, se siamo fortunate, trovare un marito. E se siamo molto fortunate, oltre che ad amarlo come ci si aspetta da noi, possiamo manipolarlo o usare il suo patrimonio per avere qualcosa che assomigli a un ruolo in società».
Però: in questa dolente e silenziosa protesta, ecco apparire qua e là ragazze ribelli, sardoniche, insofferenti, accanite lettrici, decise a scegliere e non a farsi scegliere. Un doveroso e stucchevole omaggio al femminismo? Non si può escludere. Anche qui, l’ingrediente giusto dosato al meglio. Ma in questa torta densa e gustosa, funziona. Non mancherà neppure un triangolo amoroso a tre, dove lui sta con lei e anche con un altro lui, tutti insieme appassionatamente in sensuale e improbabile armonia.
Penelope/Lady Whistledown riuscirà a far innamorare perdutamente il suo adorato Colin, rischierà di perderlo, arriverà quasi a farsi disprezzare, lo riconquisterà, convoleranno a nozze, ri-litigheranno, si ameranno per sempre, tutto come previsto. Nessuna suspense, per carità, si va dritti verso un trionfo collettivo più sfacciato di quelli della Disney. Le madri «cattive» diventeranno quasi buone, le cattive ragazze verranno punite, e la strepitosa Regina Carlotta, dalle acconciature ipnotiche sempre più alte ed elaborate, e sempre divisa tra malignità, noia, curiosità e divertimento, ingaggerà con Lady Whistledown una partita a scacchi dove entrambe vinceranno.
Il gioco di società comunque continuerà, anche dopo che tutti avranno saputo chi è la perfida scrittrice, l’unica capace, peraltro, di agitare le acque di una palude sin troppo perfetta. E noi siamo felici di sapere che il carillon di Shondaland continuerà a girare, perché lo vogliamo esattamente così com’è: esagerato, fumettoso, cinico e dolce quanto basta per soddisfare il nostro infantile bisogno di sapere che «alla fine, andrà tutto bene».