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Allonsanfàn
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La prima notte di quiete, il cappotto di Delon e quello di Brando nel tango

Il più stravagante e convincente punto d’incontro tra due film leggendari, La prima notte di quiete – appena restaurato, visto in sala, disponibile su Prime – e Ultimo tango a Parigi, è il cappotto cammello promosso a capo signature per i due protagonisti, Alain Delon e Marlon Brando.

Nel film di Valerio Zurlini, Delon veste sempre uguale col paltò aperto e sotto un maglione verde, sia che a Rimini nevichi sul mare d’inverno o faccia caldo in bettole fumose, neanche fosse un supereroe in costume o un attore dei tempi nostri sponsorizzato da un brand – invece, più semplicemente, l’iconico (pardon!) cappotto doppiopetto apparteneva al regista. Nel film di Bernardo Bertolucci, Brando indossa su un golfino scollato a V un morbido modello monopetto, che gli dà un tocco inimitabilmente trasandato, e anche questo capo, vuole la fama, sarebbe uscito dal guardaroba del regista. Si narra poi che i cappotti avrebbero potuto cambiare destino in fase di casting: il più famoso dei tanghi cinematografici sarebbe stato proposto dapprincipio da Bertolucci ad Alain e questi, declinando l’offerta, avrebbe consigliato all’italiano di provare con Marlon…

Brando e Schneider in Ultimo Tango a Parigi

Ma al di là del look fashion elegantemente maledetto, casuale con studio, i titoli stessi delle due pellicole uscite a poca distanza nel 1972 – Zurlini in ottobre, Bertolucci sotto Natale – sono speculari, chiastici, giustapponendo un esordio e un finale, un “primo” e un “ultimo”, che sono insieme il clou del melodramma. La prima notte di quiete si identifica con la morte, morte cui allude e prelude l’estremo giro di ballo alla Salle Wagram.

I due film, molto maschili e un poco eccentrici come l’outfit di cui sopra, sono gemelli diversi ma gemelli nel tema di fondo, raccontando l’amore disperato di un uomo maturo (la mezz’età di allora, Delon pare un ragazzo) per una donna giovanissima, entrambi gli uomini avendo subìto delusioni e dolori a fianco di una compagna di pari età – la moglie di Brando si è suicidata, quella di Delon, Lea Massari (Monica), minaccia il suicidio e Delon crede che si sia uccisa davvero con le pasticche nel concitato e drammatico finale.

Entrambi gli uomini, dopo essersi nascosti per tutta la pellicola, si confessano solo all’ultimo svelando tutto quello che hanno fin lì tenuto celato – alle loro ragazze e al pubblico – dietro un disperato e a tratti irritante stoicismo pseudo cool.

Brando dà le sue generalità, a partire dal nome (Paul), e si capisce che sbracherebbe risalendo fino agli avi quando non sa più come riconquistare una raggelata Maria Schneider (Jeanne), Delon racconta nel sotto finale chi è il suo professor Daniele Dominici, e perché è tornato in riviera, non alla misteriosa Sonia Petrovna (Vanina), ma a Giancarlo Giannini (Spider) che ne fa drammaturgicamente le veci. Tra l’altro, per rimanere al gioco delle similitudini, Schneider e Petrovna avranno con questi due film senza dubbio maschilisti, di prospettiva comunque maschile – non entro nelle consuete polemiche sullo stupro fiction col burro – un successo mai più eguagliato, anche se Petrovna vanta un ruolo nel Ludwig di Visconti.

Ma adesso tendete le orecchie. In entrambe le pellicole un jazzista spadroneggia nella colonna sonora: la tromba di Maynard Ferguson si alza come il vento per le spiagge deserte e il sassofono di Gato Barbieri incendia le pensioni scalcagnate della Ville Lumière.

Delon sul set, nel 1972

Le differenze tra i due film sono solide come le somiglianze. Torniamo alle due ragazze: Petrovna-Vanina si offre sul serio come possibile elemento di salvezza a Delon, il personaggio di Schneider giammai a Brando (questo me l’ha fatto notare l’amica e cinefila Giovanna Fumarola).

E poi: Zurlini (1926) è molto più italiano e malinconicamente tradizionale, in fondo il suo consapevole mélo potrebbe conchiudersi persino bene. L’unico ostacolo – e che ostacolo! – viene dal passato dei morti che Delon-Dominici non ha saputo né salvare, né dimenticare.

Il più giovane Bertolucci (1941) tenta invece spavaldamente una carta internazionale, anche a livello filosofico – l’Utopia è quella di scardinare la famiglia borghese, dandola addirittura in pasto ai maiali.

Del resto, si confrontano Rimini e Parigi – anche la Rimini di Zurlini viene però tinta di noir alla francese, tanto quanto Bertolucci è Nouvelle Vague, come l’auto scassata su cui gira e muore Delon, che un po’ incongruentemente si è portato nella stanza in affitto una collezione di ben rilegati classici d’Oltralpe (Vanina Vanini di Stendhal è in prima fila sugli scaffali).

Fermiamo qui il nostro divertissement, e congeliamo i fotogrammi sulla violenza appassionata degli amplessi in entrambe le pellicole – quelli di Brando e Schneider crudeli e trasgressivi – e sull’eterna défaillance e infelicità del maschio in un’era femminista, un maschio in crisi degli anni Settanta che fatica coi sentimenti e scopa disperatamente quanto più si illude di condurre il gioco e invece non ha nessuna carta buona in mano.

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