UN BLOG
IN FORMA DI MAGAZINE
E VICEVERSA

Allonsanfàn
{{post_author}}

Bronzetti, Nel cuore degli altri. Il mistero di 21 grammi tra medicina, vita e arte

Ci sono saggi scientifici ben scritti, pieni di contenuti interessanti, ci sono libri divulgativi che ti aprono un mondo, ci sono volumi ricchi di informazioni che uno mai si sarebbe immaginato. E poi ci sono pagine diverse da tutte, indimenticabili, come quelle di Gabriele Bronzetti, cardiologo (dopo essere stato barista, cameriere e perito agrario) che nel suo Nel cuore degli altri – edizioni Aboca, non sbagliano un colpo – mescola come in una formula magica casi clinici, storie di vite vissute o mancate, lezioni di anatomia, dialoghi medico-paziente, riflessioni sull’esistenza, la malattia, la morte, la resurrezione (intesa in senso laico: trapianti di cuore dove un corpo smette di vivere e un altro rinasce con l’organo ricevuto), e soprattutto: continui rimandi a film, dipinti, narrativa, canzoni, melodie. E difatti il sottotitolo del libro è Quando arte, musica, letteratura e cinema aiutano a raccontare la medicina.

E lo fa, questo dottore-scrittore, con uno stile ironico,  colto, profondo ma pure spensierato, dolente e leggero. Nel raccontarci gli intralci e gli inciampi della nostra infaticabile pompa vitale scopriamo, tra le tante, tantissime altre cose, che il cuore di un feto assomiglia a una fragola e pesa 21 grammi (come il «peso dell’anima» in una falsa, ma così poetica, credenza), e che il primo senso a svilupparsi nel futuro neonato è l’udito, apposta per «poter sentire la madre nel buio pesto di un lockdown di nove mesi», e accordare su quei battiti il proprio minuscolo orologio biologico.

Se sarà fortunato, scrive Bronzetti, quei 21 grammi avranno anche cento anni di desideri da ossigenare con quattro miliardi di battiti e 400 milioni di litri di sangue. «Sangue da suonare con un’orchestra di strumenti a percussione. E se il cuore è un organo, allora che suoni».

Quei mitici 21 grammi rimandano anche, nella saga cardiaca che qui si racconta, alla pesatura dell’anima negli antichi Egizi: il cuore del defunto veniva pesato dal dio Osiride sul piatto di una bilancia, sull’altro una piuma di struzzo. Solo se era puro o leggero come quella piuma, si apriva l’accesso all’aldilà.

Il piccolo cuore di Francesco, che l’ecografia rivelò «difettato» (in una delle tante storie raccontate), è durato una trentina d’anni, dopo innumerevoli operazioni e ricoveri. Alla fine il giovane, sfinito, chiede al dottore di «lasciarlo andare». «Francesco mi chiede di spingere l’acceleratore come Alain Delon sulla statale di Rimini prima dello schianto. Vuole entrare a occhi aperti nella sua prima notte di quiete».

Ogni capitolo reca il nome di un’anomalia del battito, di una malformazione, di uno «sbaglio genetico» o biologico. Ma nonostante destini incerti, sempre divisi tra il mazzo di carte degli Imprevisti e quello delle Probabilità, alla fine vivere si può, e bene, anche con un cuore infranto, o messo insieme come si riesce, e la moderna medicina lo fa sempre più spesso. A salvarci da una fine corsa possono essere tante cose: una diagnosi precoce, l’intuizione quasi sovrannaturale di una madre che ascolta il battito del proprio figlio e sente che «qualcosa non va», l’abilità di un medico, un nuovo device hi-tech che si infila nel cuore e ne diventa l’angelo custode, un trapianto riuscito che è l’unica, vera, moderna reincarnazione.

Alle vite accidentate dei tanti pazienti di Bronzetti si affiancano le esistenze illustri di personaggi famosi, come quella del compositore e direttore d’orchestra Gustav Mahler, morto a 50 anni, nel 1911, per colpa di una valvola mitrale «con un soffio sinistro, l’eco amplificata di una cardiopatia infantile».

La sua ultima sinfonia, la Nona, è un lungo addio al mondo: «Nel primo movimento si può ascoltare il tumulto di un cuore malato: il ritmo errattico della fibrillazione atriale è reso dai corni e dai violoncelli, mentre il tremolio dei violini imita il soffio della valvola mitrale danneggiata. L’ultimo movimento si dissolve nel silenzio, con i violini che si spengono in un interminabile pianissimo». E come si fa a non riascoltare la Nona, sapendo ora tutto ciò?

C’è spazio, in questo saggio sorprendente, anche per la musica dei Pink Floyd, per il Malato di cuore di De André (dall’Antologia di Spoon River), per il film Il cielo sopra Berlino, per i tragici androidi di Blade Runner, per la Gita al faro di Virginia Woolf, per Il grande Gatsby di Fitzgerald, per Memorie di Adriano della Yourcenar, per Notte stellata di Van Gogh. Ma anche per il pace maker che ha salvato di Elton John, o per la morte improvvisa, durante una partita, del calciatore Piermario Morosini (nel 2012), a causa di una malformazione mai diagnosticata.

Tante finestre che si aprono all’improvviso su mondi, esperienze ed esistenze altrui, partendo sempre da quell’organo in mezzo al nostro petto, con la punta appoggiata a sinistra, e che malgrado oggi si sappia che la coscienza, la consapevolezza (o l’anima per chi voglia crederci) albergano nel cervello, non rinuncia alla sua supremazia simbolica, alla sua calamita di immagini, suggestioni e significati. Abbiamo tutti, prima o poi, «il cuore a pezzi», conosciamo tutti, si spera, qualche persona «di buon cuore», ci sarà sempre qualcuno con «il cuore di pietra», parleremo a chi amiamo «con il cuore in mano», e così via.

Gabriele Bronzetti
E finché «lui» batterà ogni giorno, tra le 60 e le 100 volte al minuto, avremo il tempo di vivere, soffrire, gioire, maledire il destino, amare, ammalarci di altro (purtroppo c’è ampia scelta), curarci, continuare a sperare.

Alla fine di 257 pagine, torniamo alla richiesta straziante di Francesco al cardiologo, di accelerare la sua fine, di non tenerlo più su quel letto terminale, di regalargli per sempre un sonno senza dolore.

«Non ricordo quello che ho fatto» decide di scrivere Bronzetti. «Gli altri 21 grammi adesso chissà dove sono».

I social: