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Allonsanfàn
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Stragi. Quei brutti ricordi avvolti dalla nebbia

L’Italia è il Paese delle commemorazioni: non solo quelle religiose con le secolari feste di popolo, le processioni, i dolci tipici. Ce ne sono tante altre che appartengono al ’900 ma senza santi e senza feste.

Sono i ricordi delle vittime dell’ultima guerra cui si aggiungono quelle dell’Italia repubblicana e democratica: erano persone assassinate dalle mafie; le vittime degli attentati e quelle delle sparatorie delle polizie; altre ancora assassinate dalle bande pseudo rivoluzionarie di destra e sinistra; e quelle delle tragedie ufficialmente definite quasi sempre “incidenti senza colpevoli”.

Queste commemorazioni laiche effettuate ogni anno si risolvono in un rituale di un paio d’ore: col discorso di prammatica di un rappresentante delle istituzioni, qualche stretta di mano ai parenti delle vittime con la promessa “che sarà fatta giustizia”, accompagnata da un “arrivederci all’anno prossimo”.

Ma le promesse non vengono quasi mai mantenute: la giustizia è negata mentre la memoria viene conservata dalle famiglie delle vittime con ostinata perseveranza, col solidale lavoro delle inchieste giornalistiche e degli autori di libri, che la alimentano con nuovi particolari trascurati o dimenticati dalle Istituzioni troppo “distratte”.

Quei particolari sono Verità nascoste, come titola il libro di Luigi Ferro e Monica Triglia, uscito recentemente per Zolfo editore. Racconta delle tragedie che hanno colpito l’Italia, da Piazza Fontana del 1969, a Moby Prince del 1991, ponendo in risalto la costante indifferenza dello Stato verso il dolore e le attese delle famiglie. Sono fatti che hanno spinto la mia memoria a ripercorrere tutti quegli anni bui del nostro Paese.

stragi vittorini

A partire da Piazza Fontana in poi, quelle tragedie hanno accompagnato il mio cammino da giornalista anche se non me ne sono occupato direttamente. Ma nelle due cui ho accennato sono stato un testimone indiretto.

Nel tardo pomeriggio del 12 dicembre del 1969 mi trovavo a Milano, in un salottino del ristorante Biffi, in Galleria. Ero da poco stato assunto come giovane praticante dal settimanale Tempo e in quel posto di lusso mi trovavo in qualità di segretario del Premio di giornalismo Palazzi che veniva effettuato ogni anno in ricordo dell’editore del giornale, Aldo.

Con me, oltre al figlio di Palazzi e il direttore di Tempo, Nicola Cattedra, c’erano Alberto Ronchey, direttore della Stampa, Vittorio Gorresio, Arrigo Levi, l’anziano Paolo Monelli e Giuseppe Luraghi, presidente dell’Alfa Romeo ancora nel gruppo IRI.

Facevano parte della giuria che alla fine si accordò sul premiare Gian Paolo Pansa, del Giorno.

La notizia dell’esplosione ci raggiunse verso le 20: un cameriere si avvicinò a Cattedra e gli disse sottovoce che era chiamato al telefono (i cellulari sarebbero arrivati 30 anni dopo).

«C’è stata un’esplosione in una banca in piazza Fontana» ci disse Cattedra dopo la telefonata. «Dicono sia scoppiata una caldaia e che ci siano vittime».

Ricordo l’espressione perplessa di Monelli, vecchio inviato di guerra del Corriere che commentò: «Le caldaie che scoppiano nelle navi provocano vittime, non quelle delle abitazioni». Al termine della riunione conoscemmo la verità: era scoppiata una bomba. Fu impossibile avvicinarci alla piazza.

Mentre lo accompagnavo a casa, Cattedra commentò: «Vedrai che daranno la colpa agli anarchici, ma di solito gli anarchici se la prendono con Re, Principi e dittatori, non con la gente comune».

Il settimanale Tempo, come Panorama e l’Espresso, dopo giorni di dubbi e incertezze, non seguirono la tesi dell’anarchia, mentre lo fecero i giornali indipendenti con in testa il Corriere diretto da Spadolini, ma anche quelli di partito come l’Unità che definì Valpreda con un titolo in prima pagina “Il mostro di piazza Fontana”. Pochi giorni dopo il giornale del PCI cambiò rotta.

La mattina del 15 accompagnai il collega “anziano” Ermanno Rea ai funerali delle vittime in piazza del Duomo. Pioveva a dirotto e, per la nebbia, il cielo non si vedeva; parcheggiammo in Via Manzoni, davanti alla libreria Feltrinelli che mostrava all’ingresso una piccola bandiera italiana sormontata da due strisce nere. Ce n’erano altre sempre messe a lutto, più grandi, davanti a palazzo Marino, alla Scala, alla sede della Banca Commerciale.

I negozi e i caffè della Galleria erano tutti chiusi; una colonna di persone si muoveva lentamente per raggiungere piazza del Duomo ormai piena.

Riuscimmo ad arrivare ai portici della Rinascente attraverso le vie laterali. Rea mi disse di mischiarmi tra la folla, di ascoltarne le voci, osservarne le reazioni. Mi raccomandò di non fare domande, “di ascoltare soltanto senza prendere appunti”.

Il mio problema era quello di potermi muovere in una piazza affollata da 300 mila persone: non c’erano bandiere o simboli di partito; dominava un silenzio assoluto, nessuno parlava; osservavo soltanto volti sgomenti e sdegnati; vedevo lacrime. Dominava un’atmosfera drammatica, resa cupa dalla nebbia bassa che nascondeva le guglie del Duomo.

“Era mezzogiorno, ma sembrava mezzanotte”, disse Pertini in un’intervista del ’73 a Oriana Fallaci, commentando quei funerali ai quali aveva partecipato come presidente della Camera.

Quella notte morì Giuseppe Pinelli “precipitando” da una finestra della Questura; il giorno dopo venne arrestato Pietro Valpreda e la nonna denunziata per “falsa testimonianza”.  Quei giorni segnarono il mio esordio da giornalista.

Pertini tornato a Milano per un’altra occasione si rifiutò di incontrare il questore Marcello Guida.  Quando, sempre in quell’intervista, la Fallaci ne chiese il motivo, rispose: «Ero ancora sul treno appena arrivato a Milano quando il mio segretario mi comunicò che il questore Guida aveva chiesto di “ossequiarmi”. Risposi che il presidente della Camera Sandro Pertini non intende riceverlo».

«Mica perché era stato direttore della colonia di Ventotene, sa?» aggiunse Pertini. «Non fosse stato che per Ventotene, avrei pensato: ormai tu sei questore e voglio dimenticare che hai diretto quella colonia, che vieni dal fascismo, che eri un fascista. Non l’avevo ricevuto perché su di lui gravava, grava, l’ombra della morte di Pinelli»

E concluse: «A me basta che Pinelli sia morto in quel modo misterioso quando Guida era questore di Milano perché mi rifiuti di accettare gli ossequi di Guida. Oriana, io non sono capace di far compromessi!».

Oggi mi chiedo se esistano ancora politici del livello di Pertini.

 

stragi Vittorini Moby Prince
Il relitto carbonizzato della Moby Prince

Lavoravo da anni al Corriere della Sera quando al largo del Porto di Livorno la sera del 10 aprile del 1991 il traghetto Moby Prince andò a sbattere contro la petroliera Agip Abruzzo.

Mi trovavo per una breve vacanza a Guardistallo, a una quarantina di chilometri da Livorno. Da sempre mattiniero, seppi della tragedia dal giornale radio delle sei. Salii subito in macchina e corsi verso Livorno: non era compito mio occuparmi della vicenda, poiché lavoravo nella redazione esteri del giornale, ma pensavo di poter essere utile al collega del Corriere che se ne sarebbe occupato.

In gioventù avevo vissuto a Livorno ed ero ancora in contatto con miei ex compagni di liceo, un paio dei quali lavorava negli uffici del porto.

Al giornale radio ascoltai anche una breve intervista a un addetto ai fari il quale dichiarò che quella notte la visibilità era ottima: non c’era nebbia.

E lo constatai anch’io mentre percorrevo la vecchia via Aurelia che dopo Castiglioncello costeggia il mare. Mi fermai a Calafuria, su una piazzola di sosta da cui erano ben visibili in rada le luci delle navi all’ancora fuori della diga foranea. In un punto c’erano forti bagliori, forse fiamme.

Potevo vedere molto più lontana anche la luce intermittente della antica torre sullo scoglio della Meloria. Quel monumento venne eretto dopo la battaglia navale del 1284, tra genovesi e pisani, con la sconfitta di questi ultimi. Fu catturato e imprigionato anche Marco Polo, un veneziano tra i pisani.

Tanto per la cronaca, quella piazzola di sosta era la stessa in cui fu girata l’ultima scena del film Il sorpasso, con Gassman e Trintignant, quella della Lancia Aurelia spider che precipita in mare.

Giunto a Livorno mentre albeggiava, nel porto Mediceo non si poteva entrare: c’erano mezzi dei pompieri e auto della polizia con i lampeggiatori in funzione.

Entrai nel bar davanti all’ingresso del porto dove si radunavano gli scaricatori prima di andare al lavoro: ordinai un caffè normale, mentre loro prendevano la Torpedine, un punch corretto con rum in abbondanza.

Chiesi informazioni: uno mi disse che una nave aveva preso fuoco; un altro precisò che erano due e ne fece i nomi; un paio d’ore dopo, un amico mi raccontò com’erano andate secondo lui le cose: c’era stata molta confusione; si pensava prima ad una sola nave; non arrivò l’Sos della Moby, o non venne compreso; non si conosceva ancora la sorte dei passeggeri.

Erano tutti concordi nel confermare che tra il porto e la diga foranea, quella sera c’era un traffico inconsueto di imbarcazioni.

Tante ipotesi confuse ripetute dai miei interlocutori. Due giorni dopo vidi la nave attraccata alla banchina: galleggiava normalmente; aveva la prua squarciata, il resto dello scafo intatto, ma annerito dal fumo, quel fumo che aveva ucciso lentamente 143 persone e che nessuno era riuscito a salvare.

Poi calò la nebbia, ma non quella vera che non c’era mai stata.

Foto in apertura: i funerali delle vittime della strage di piazza Fontana a Milano. Credit: Mario De Biasi

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