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Allonsanfàn
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Alla corte di mio padre, le memorie incantate di I.B. Singer

Mi è capitato di leggere disordinatamente, e spesso confondendoli, i libri dei due Singer: e d’altronde, disordinate in fatto di cronologia, sono uscite in Italia le loro opere negli ultimi vent’anni. Al premio Nobel del 1978, Isaac Bashevis (1903-1991), ho accostato il riscoperto fratello maggiore, Israel Joshua Singer (1983-1944), che divide con il primo la vena di torrenziale narratore, capace di far rivivere nelle sue storie famigliari un universo perduto nella memoria o più semplicemente distrutto dalla crudeltà insensata degli uomini e della storia. I titoli che l’hanno sottratto all’oblio: I fratelli Ashkenazi (Bollati Boringhieri 2011) e La famiglia Karnowski (Adelphi 2013).

Ma anche ogni pagina stampata del fratello minore, Isaac Bashevis Singer – questo invece l’ho sempre percepito con chiarezza – è una sorpresa, come i testi di Alla corte di mio padre, ricomparsi ora da Adelphi, a cura di Elisabetta Zevi, nella nuova traduzione di Silvia Pareschi. Destinati a un periodico, il Jewish Daily Forward, e scritti sotto pseudonimo – entrambi i Singer sono accomunati da una massiccia attività pubblicistica, dedicata alla comunità ebraica, e i loro lavori sono spesso apparsi a puntate sui giornali – i ricordi di Alla corte di mio padre passano il severo vaglio dell’autore e vengono riuniti in volume nel 1956, quando Singer è diventato cittadino statunitense da quasi un trentennio. Sono usciti per la prima volta in Italia nel 1979 da Longanesi, editore storico di Singer nel nostro Paese. Per dare un’idea, La famiglia Moskat, primo romanzo di Isaac Bashevis Singer tradotto dall’yiddish e pubblicato in inglese, data 1950.

Qui il più intellettuale (credo) o semplicemente il più versatile dei due fratelli unisce “belle lettere” e “memorie”, riaprendo per i lettori le porte della casa d’infanzia a Varsavia e fornendo l’accesso alla sovraffollata e misera via Krochmalna d’inizio Novecento, dove il padre dei Singer, il rabbino hassidico Pinchos Menachem, era designato a giudicare le controversie dei correligionari, grazie all’istituto del Beth Din. Il Beth Din unisce in sé tribunale, sinagoga, luogo di studio della Torah e forse persino divano di psicoanalista per anime in difficoltà: si rivela per Singer un posto privilegiato di osservazione, essendo “un’espressione infinitesimale del consiglio di giustizia celeste, il giudizio di Dio, che gli ebrei considerano assolutamente misericordioso” (dalla prefazione).

I.B. Singer (Dan Hadani collection)

Alla corte di mio padre è un’educazione alla vita in un contesto storico preciso, ossia realisticamente indagato e descritto, con due caratteristiche a rendere più viva la narrazione, determinandone il tono. C’è una deformazione data dalla prospettiva visuale del ragazzino che cresce nella casa paterna e in un “regno” fondato su saperi esoterici per molti versi a lui sconosciuti: ciò permette di accedere a un registro quasi fiabesco, illuminato dalla ricerca e dalla riflessione sul sacro, nelle quali al crepuscolo di un Shabbat, gli angeli possono confondersi con più prosaici fantasmi terreni. Oppure accade che un treno merci, visto da bambino in viaggio con la famiglia, sembri “venire dal nulla e dirigersi oltre la fine del mondo, dove incombeva l’oscurità”. Conclude lo scrittore: “…lo circondava un alone di mistero che non ho mai dimenticato…”.

Il ragazzino diventa grande in queste pagine di pari passo con la sua generazione, mentre il primo conflitto mondiale – lo scontro tra Gog e Magog, secondo il padre – scompagina più di un trasloco il suo tradizionale quadro famigliare. Varsavia si trova allora in bilico tra la Germania e la Russia, mentre, come nota lo scrittore, non c’è niente di più inutile di un rabbino in tempo di guerra – una frase che suona oggi in modo beffardamente attuale.

Seconda caratteristica del testo. Lo sguardo che appartiene all’adulto Singer conferisce invece alle vicende narrate un distacco saggio e bonario, che non esclude né l’ironia né un intento edificante.

In altre parole: i quesiti proposti dalla comunità ebraica al rabbino, e quelli di una realtà in mutamento, rappresentano altrettanti passi della conoscenza per il giovane Isaac. Nella dimora del padre e della madre – anch’ella figlia di rabbino, e pratica e volitiva sotto la parrucca di seta sempre di sghimbescio tanto quanto il padre è mite e inetto fuori dal suo studio – trascorre tutta l’imprevedibile varietà e ricchezza dell’esistenza e lo scrittore che ricorda ne è consapevole e in qualche modo grato.

Il consiglio (ed è ciò che farò): mescolare i testi di Alla corte di mio padre con i racconti d’invenzione di cui Singer è stato assai più che prolifico, magari partendo dal celebre Gimpel l’idiota: il personaggio che parla in prima persona agli albori della fortuna di Singer – in inglese vanta una traduzione dall’yiddish di Saul Bellow – è l’esempio di come per il futuro premio Nobel, prima di tutto e su tutto, al di là di ogni preoccupazione riguardo a un messaggio da comunicare, prevale il valore del narrare.

Nella immagine in alto, via Krochmalna a Varsavia (la foto risale al 1940 o 1941, l’autore è sconosciuto)

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