Altro che starsene zitti e buoni a “riposare in pace”: qui nel Connemara, selvaggia regione rurale irlandese (molto irlandese) situata sulla costa occidentale dell’isola, i morti sepolti nel camposanto fanno una gran cagnara. Indaffarati come sono a “non mandarsele a dire”, usano e abusano della loro unica arma – la voce, le parole – per litigare, spettegolare, scambiarsi ingiurie e rinfocolare antichi rancori (alghe rubate, l’asino che sconfina nel podere del vicino, astiosi riferimenti alla politica nazionale e al nazismo – siamo nel periodo della seconda guerra mondiale). Ognuno blatera contro il proprio nemico personale e tutti quanti, i ciarlieri defunti, contro i compaesani ancora vivi “là sopra” – che loro quaggiù aspettano con ansia per avere notizie fresche dall’aldiqua – come se si trovassero a discutere al pub o sulla piazza del mercato “sopraterra” anziché nelle loro tombe e loculi.
Parole nella polvere, considerato il capolavoro dell’irlandese Máirtín Ó Cadhain (1906-1970), l’ho trovato in Biblioteca nella bacheca dedicata alla letteratura “cimiteriale” durante la prima settimana di novembre (quella della “commemorazione dei defunti”) e sono tuttora coinvolta in questa festa del linguaggio delle sue godibilissime quattrocento pagine. Sulle prime lo scenario tombale potrebbe far pensare all’Antologia di Spoon River di Masters ma qualche lettore di cultura sudamericana penserà anche a Memórias póstumas de Brás Cubas del brasiliano Machado de Assis, e a me, milanese, vengono in mente anche Anime e acciughe con il sequel Il paradosso di Achille, entrambi scritti da Achille Mauri (1939-2023) – editi da Bollati Boringhieri rispettivamente nel 2017 e 2019 – dove alcune anime di defunti (il maresciallo Radetzky e l’autore stesso, Elio Fiorucci e Umberto Eco e altri), ormai ridotte ai loro 21 grammi di peso, si ritrovano a chiacchierare in una Porsche parcheggiata nel garage sotterraneo di via San Marco a Milano zona Brera.
Ma poi subito, tornando a Parole nella polvere, ci troviamo dentro una singolare commedia corale che prende la sua “voce” fin dall’incipit con le esternazioni della litigiosa defunta Caitríona Pháidín: “Chissà se mi hanno sotterrata nel lotto da una sterlina o in quello da quindici scellini” (…) c’è una macchia nel sudario! Sembra fuliggine. No, è una ditata! La moglie di mio figlio, ci giurerei. La solita sciattona…”. E avanti così in un succedersi di monologhi che si trasformano in dialoghi, storie che si intrecciano e s’aggrovigliano creando la trama del romanzo, voci che si alternano e si rimbeccano nella lingua gaelico–irlandese parlata in vita.
Vengo a sapere da Wiki che lo scrittore Máirtín Ó Cadhain (del quale non avevo letto nulla prima di Parole), socialista impegnato nell’ambito del nazionalismo irlandese, autore anche di pamphlet politici per cui venne rinchiuso dal 1939 al 1944 in un campo di prigionia per dissidenti, e infine professore associato di irlandese al Trinity College di Dublino, ha voluto scrivere il romanzo nella lingua che lui stesso, nativo del Connemara, aveva parlato fino ai sei anni, per “salvare la lingua dei padri” che, prevedeva, sarebbe stata cancellata dall’inglese. Scelta coraggiosa che però di fatto ha relegato tra le opere intraducibili, dove è rimasto per 66 anni, il romanzo Cré na Cille (ovvero “La creta del cimitero”, titolo col quale Parole nella polvere era stato pubblicato nel 1949 da un piccolo editore di Edimburgo).
Tra il 2015 e il 2016 sono comparse due traduzioni in inglese, una col titolo The Dirty Dust firmata da Alan Titley; l’altra, Graveyard Clay di Tim Robinson e Liam Mac Con Iomaire, pubblicate entrambe da una casa editrice accademica degli stati Uniti, la Yale University Press. La versione in italiano, stampata nel 2017 per i tipi dell’editore Lindau di Torino, costituisce una sorta di caso editoriale nell’ambito della traduzione avendo richiesto l’opera di ben quattro traduttori: Luisa Anzolin, Laura Macedonio, Vincenzo Perna e Thais Siciliano, impegnati in un lavoro comunitario che richiama in qualche modo i “collettivi” di scrittura. Basandosi sulle precedenti versioni in inglese “i quattro moschettieri della traduzione”, come mi verrebbe di chiamarli, dopo studi e ricerche sulle espressioni vernacolari del gaelico-irlandese durate quasi un anno, hanno cercato di “rendere” in italiano la vivacità del linguaggio originale. Ci sono riusciti? Bisognerebbe domandarlo ai morti parlanti del Connemara.