Ne Il castello di Udine, ora in nuova edizione critica per Adelphi, fatto salvo il testo del 1934, Carlo Emilio Gadda serve al lettore 17 pezzi, divisi in tre sezioni, precedute da un breve testo programmatico e autobiografico, da leggere e rileggere, “Tendo al mio fine”, annuncio di poetica e private apocalissi.
Lo seguono in un ordine che si scopre cronologico: le cinque prose del Castello ovvero “il precipitato della sua esperienza di guerra” (così Claudio Vela del Centro Studi Gadda, curatore del volume); una seconda tranche in abiti civili, Crociera mediterranea, segnata da un reportage di viaggio nelle colonie, anno di grazia 1931, nella più completa assenza di folklore esotico; e poi Polemiche e pace, terza sezione, dove si trovano testi narrativi vari, da un tripartito viaggio in treno Roma-Milano, svoltosi sotto Natale, a un racconto straordinario, seppure finito in un vicolo cieco, come La fidanzata di Elio (Elio è contrazione di Emilio?), straordinario anche secondo i costumi dell’Ingegnere per le annotazioni sentimentali sul mondo femminile.
Quello che non sembrava possibile, accade. I 17 scritti, benissimo consultabili pure in spiccioli, risultano legati insieme, pur essendo nati come raccolta di pezzi d’occasione, e tutti appartengono a una già molto avanzata “officina gaddiana”, lunghe note comprese qui ripristinate in toto. Gadda le aveva ristrette, le note, tra la prima pubblicazione per le edizioni di Solaria (1934) e la versione einaudiana, apparsa nel trittico che avrebbe dovuto sancire la consacrazione dello scrittore, e che invece floppò, I sogni e la folgore del 1955: è un rarissimo caso di “istanza potatoria” e non aggiuntiva nelle riscritture meditabonde di Gadda. Ma di tutto questo e molto più si legge nella esaustiva e appassionata nota finale di Vela, più di cento pagine con appendice di altri testi coevi – uno almeno imperdibile, quello sul premio Bagutta.
Mi chiedo sfogliando e riaprendo il prezioso volume, quasi con cautela – l’Ingegnere intimidisce sempre un poco vuoi per la stazza letteraria, soprattutto se votata ai suoi magnifici fallimenti, vuoi per il sempiterno e sussiegoso apparente pudore con cui almanacca di sé e del circostante – mi chiedo, dicevo, come può apparire il Castello a un millenial, a un lettore ragazzo, non ricattato come noi, ormai vecchi, dal dover per forza – a meno di non passare per uomini gretti, senza un barlume di cultura – mostrarci esperti dell’arte a un tempo spettacolare e ritrosa di Carlo Emilio Gadda, a costo di rimanerci un po’ ingozzati come qui in un passo il bellimbusto con un marron glacé.
Ovvero. Escluse (forse) le più consumabili memorie di guerra – ma è davvero così: sono davvero consumabili? Intanto arrivano, come se niente fosse, quasi fossero pietra scolpita, intatte e potenti da un secolo fa – che effetto può fare oggi ai più giovani la prosa di questi 17 pezzi difficili?
Sintassi e lessico sono sottoposti da Gadda a un tour de force stilistico e umorale oggi ignorato dai 99 centesimi delle pubblicazioni di un cosiddetto mainstream, applicano quasi uno stretching beffardo e acrobatico alla prosa d’arte de La Ronda, di Solaria e altre riviste d’antan che erano dedite, quando buttava male e cioè spesso, alla tassidermia del reale. Gadda, nel Castello, imbalsama la vita in tutt’altro modo, alla luce della sua conclamata impotenza a viverla e narrarla, sotto il chiaroscuro di una ostentata fallibilità umana, rilevata a ogni piè sospinto tra dolore e sarcasmo, tra comico (Gadda che si fa la barba, insanguinandosi il viso, nel campo di prigionia) e tragico (il ricordo del fratello caduto).
Dicevamo. Forse Il castello di Udine sembrerebbe a un fresco lettore come apparve al nume della critica De Robertis tanto tempo fa: “Solo la guerra, e la mortale fatica, sanno sprigionato da sé…” (citato da Arbasino ne L’Ingegnere in blu). Che ingenerosa posizione. Ma poi non sono le pagine di guerra le più consumabili (e dai!). Io partirei da La fidanzata di Elio, un vero racconto, senza note a piè di pagina o in fondo al testo, anzi con una sola nota poi cancellata. È un racconto che raccoglie un ritratto corale di buona e volonterosa borghesia milanese, e di un’umile ragazza ideale nella sua mediocre perfezione, la quale ragazza si ritrova “sfidanzata” da Elio, di botto. Troppo ferito di guerra, figlio di miserevole colonnello, Elio è troppo preso a sorpresa dalla donna di un amico per non ammirare (tre volte nel breve spazio del testo) la libertà delle nuvole del cielo. Il passo di Elio che va pensoso alla sua morte borghese, la fiammata insospettabile di Eros, e il coro di voci stereotipate, tra addomesticate musiche e pile di dolciumi, che fanno da contorno e rumore di fondo, ammicca già alla Cognizione del dolore e contiene mezzo del primo Arbasino…