Il turismo, quando diventa una macchina tritatutto pur di fare soldi, mostra i suoi effetti tossici. Capita anche in Italia. Per esempio, il mercato degli affitti viene stravolto in città grandi e piccole per la proliferazione più o meno selvaggia dei bed & breakfast; interi quartieri e località sono trasformati in divertimentifici omologati, che offrono a folle itineranti gli stessi negozi, i medesimi tipi di cibo e gli stessi gadget; i monumenti vengono assediati da venditori di robaccia e da fast-food (nel caso del Colosseo, pure da finti gladiatori o pseudo-centurioni). Un apparato di questo tipo non determina solo impatti economici ma anche contraccolpi culturali (nel senso che allontana il pubblico dalla cultura vera a favore di quella artificiale a misura di influencer). Tutto ciò potrebbe trasformarsi in una esplicita forma di oppressione e in uno sfruttamento programmato di chi vive nei borghi e nei centri storici?
Una risposta romanzata – meno distante dalla realtà di quanto si possa credere di primo acchito – ce la offre Luca Zorloni, neo direttore di Wired Italia, con il suo primo romanzo: Il Paese più bello del mondo (Bookabook, 2024). È un racconto distopico ambientato nell’Italia del 2032, dove le città d’arte sono trasformate in parchi a tema che pompano soldi nell’economia nazionale, piuttosto malandata. Però dietro le quinte di questa messinscena, che incanta frotte di danarosi turisti stranieri, si cela un sistema oppressivo e corrotto: si costringono i cittadini a prestare servizio nei parchi e a obbedire ciecamente al regime. Protagonista della vicenda è Annibale Manin, guida turistica a Venezia e insegnante precario, simbolo della passività rassegnata in una società che, a dispetto dei lustrini e delle rievocazioni, nasconde un cuore autoritario. Fatto sta che Annibale viene trascinato nell’intrigo ordito dalla “Rete”, una forma di resistenza clandestina decisa a ribaltare il sistema.
Il romanzo – capace di far sorridere ma anche di suscitare qualche ansia a proposito di quello che potrebbe capitarci – è strutturato in due parti. La prima colpisce per il sarcasmo con cui Zorloni descrive l’assurdità del sistema dittatoriale in salsa turistica, tra slogan pubblicitari a raffica ed eventi iperbolici, come una finta eruzione del Vesuvio a Pompei. È un mondo che sfrutta cinicamente ciò che resta del suo passato senza costruire un futuro, dove la finzione regna sovrana e la realtà è piegata alle esigenze del turismo di massa. Emerge dunque l’invito suggerito dal racconto: occorre riflettere sui limiti del turismo come “petrolio” nazionale e sulle contraddizioni di un sistema che celebra un passato artefatto, dimenticando la propria fragilità. Nella seconda parte, il ritmo accelera, trasformando la storia in una corsa contro il tempo ricca di colpi di scena. Annibale è costretto a confrontarsi con dilemmi morali e pericoli concreti.
Sullo sfondo dell’originale e interessante romanzo c’è dunque un’ipotesi distopica che rischia, per certi versi, non solo di attenderci davvero al varco (il 2032 è dietro l’angolo) ma di essere, in qualche caso, già fra noi. In che senso? Qualche esempio reale l’abbiamo già citato all’inizio. Guardando alla cronaca quotidiana, è recentissimo lo scandalo delle cosiddette key box: sono le scatolette metalliche con combinazione che costellano i muri di tante zone turistiche, palazzi antichi inclusi, per consentire ai viaggiatori di ottenere al volo le chiavi dei b&b senza che i gestori o i proprietari si scomodino per accoglierli, come in una catena di montaggio. Questi box sono ormai il totem della “gentrificazione”: termine piuttosto cacofonico che, come recita Treccani, riguarda «la riqualificazione e il mutamento fisico e della composizione sociale di aree urbane marginali, con conseguenze spesso non egualitarie sul pianosocio-economico». Chi non sloggia viene spesso trasformato, volente o nolente, in una specie di comparsa che recita la parte del “tipico” abitante di borghi e zone inglobate dall’ameba omogeneizzante del turismo ’ndo cojo cojo (per dirla alla romana).
Da un paio di decenni è iniziata una transizione che segue coordinate ormai evidenti: viene messo al servizio del modello turistico iper-consumistico ciò che resta della “natura incontaminata” (cliché buono per tutte le stagioni) e dell’architettura lasciataci dai nostri avi (un patrimonio già aggredito dallo sviluppo disordinato che ha caratterizzato l’Italia nella seconda metà del Novecento). Però davvero lo sfruttamento massivo del turismo è una prospettiva che può reggere a lungo? Quanto ci costa e ci costerà? C’è nell’economia turistica italiana (e non solo, ma qui parliamo di casa nostra) uno dei più evidenti esempi del paradosso della globalizzazione: porta ricchezza ma determina perdita di identità, perché non riesce, anzi non vuole, conservare al meglio il patrimonio storico e naturalistico vero per metterlo in commercio senza soffocarlo; si preferisce mortificare, alterare o occultare, magari inventando una fantastoria – col contorno di rievocazioni e di “tipicità” farlocche – a misura dello sfruttamento massivo. Con tanti saluti alla storia vera, alle tradizioni fondate, alla natura, al tessuto urbanistico e sociale originario. Poi cosa resterà? Mistero. Forse ce lo suggerirà il prossimo romanzo di Luca Zorloni.
Nella foto, una Venezia fake e dai colori iperrealisti ricostruita a Las Vegas (credit: Tayssir Kadamany)
- Marco Brando ha pubblicato Medi@evo. L’Età di mezzo nei media italiani (Salerno editrice 2024)