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Allonsanfàn
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Londra per sempre, come un parco a tema

Due anziani gentlemen in tight e bombetta appena fuori da Bank Station dove arriva il treno che parte da London City Airport nel suo viaggio da est, lungo il Tamigi e la periferia estesa di Londra in sempiterna verticale costruzione, le rotaie che conducono lo sguardo sul backstage, osceno, finestre e balconi di vite che si immaginano precarie, ancora aggrappate al sogno mattiniero di toccarla controcorrente e da vicino la capitale, a un biglietto da qui, o rassegnate piuttosto a un orizzonte un tempo creduto a portata di mano e ora divenuto soltanto un’abitudine buona per alzarsi dal letto senza guardare nemmeno che tempo faccia, tanto cambia se ricordo bene dieci volte al giorno: sarà la stessa di quel mio oggi di allora la metropoli che si offre appena a scrutare dai vetri tra i fantasmi in piedi nel tramestio delle ruote ferrate, già operativi ai cellulari come si dice nello slang di chi fa del lavoro una ragione sufficiente per sentirsi se non vivo almeno partecipe, al suo posto sulla ruota che gira, poi respinti a ogni fine di giornata in questo margine dilatato che si spande inarrestabile come una lenta inesorabile marea di fiume ad assecondare l’identico quotidiano arginato percorso, cocci di esistenze in bilico tra il sogno e la resa, o è solo – la loro e la mia – stanchezza da sonno non ancora digerito, un rigurgito che non diviene per educazione vomito?

All’interno della carrozza che risale il corso del Tamigi altri sguardi si posano vicendevoli – fermata dopo fermata – sull’umanità resa indifferente dall’abituale fatica dell’alba che mischia gli appena sbarcati all’aeroporto ai consueti pendolari. Chi scende prima, molto prima non avendo nemmeno più l’illusione di arrivare al punto di interscambio, nella ragnatela delle linee di fughe senza scampo, sollevato quasi d’averlo perduto l’obiettivo, lancia un’occhiata rapida, mista invidia e compassione, mentre cerca la via più rapida alla promessa di un’Exit indolore, a chi prosegue portando con sé, accanto, il fardello di avere qualcosa ancora da dimostrare, qualche chilometro più in là, la sensazione di avere magari soltanto una fiche farlocca da gettare per l’ennesimo fallimentare progetto di salvarsela la pelle levitando almeno sulla massa dei NEET, gli ormai disillusi: il confine tra periferia e centro, che il treno arriva proprio nell’iride della City, è l’attimo in cui si precipita nel buio e la galleria si fa sempre più profonda come se bisognasse prima un po’ almeno morire per dimenticare da dove si viene, forse addirittura chi si è, e solo allora avere il permesso di obliterare in uscita il biglietto per emergere dalle fondamenta, al termine di chilometriche scale mobili scambiate per ascensori sociali, farsi uomini nuovi, reinventare le proprie stesse viscere, ricacciare indietro la nausea, alimentare ambizioni posticce, col supporto morale di sentirsi solo per questo abbaglio migliori, offrirsi smemorati come vergini sacrificali per essere ammessi in breve udienza – purificati, scannerizzati, protagonisti o spettatori – al cospetto di Londra in scena per l’ennesima replica sold out di se stessa.

Vorrebbero i due apocrifi gentlemen essere di supporto al turista che si pensa smarrito, proprio mentre sta gettando l’unica chance di ritrovarsi, colpito in fronte da un insolito barbaglio di sole che rende penoso quell’ombrello pieghevole nel trolley, trascinato come un calcolo renale, che lo identifica come straniero e perciò fastidioso al rutilante emergere della massa dei pendolari che hanno ben precisa nell’algoritmico programma di giornata e la meta e il destino. A me non resta che scansare e gli uni e l’altro, e pure i lavoratori, così compiaciuti delle proprie catene, del loro percorso cronometrato alla meta, perché se qualcosa rimane della libertà, in mancanza della stessa, è proprio questo consegnarsi vigile al fato che altrimenti è indistinguibile il tragitto verso l’ufficio o verso il Big Ben.

Con l’illusione che basti gettare la sacca dietro una spalla per rendere omaggio a Dickens e guadagnarsi una diversità che non è di genere ma di attitudine, quella di cui importa nulla a nessuno. L’unica, inclassificabile, a fare ancora paura, perché rifugge dall’inclusione.

Dunque, che fare? Finito l’ipnotico arrancare sul London Bridge dei commuter verso le prigioni di cristallo della City, in bici in taxi o sui Double-Decker fiammeggianti senza i quali Londra non sarebbe mai più Londra (quando si lavorerà tutti da remoto e gli uffici saranno il passato – le fabbriche tutte delocalizzate in cerca di nuovo proletariato – e le merci e i pasti pronti voleranno sui droni, rimarranno comunque come già le cabine telefoniche – rosse capsule parmenidee – a fare da monumento identitario, solo in perpetuo falso movimento come già fanno in iconico prestito a Milano menando in tour i turisti con doppio effetto di straniamento), ma l’esercito vero è pedestre, un flusso umano irregolare, very demure, very mindful, che risalendo il ponte arriva a ondate, di buona lena, passo deciso e falcata ampia, braccia distese e alternate da marcia militare, cosmopolita e colorato, i più in avanzata singola, ma anche coppie mano nella mano, cuffie e auricolari, e nessuna voglia di parlare o di volgere lo sguardo dal telefono al perplesso osservatore, io, che staziona al parapetto, le spalle al Tower Bridge che pure qualche sparuto romantico devoto a Turner – zainetto sulle spalle o hijab intorno agli occhiali da sole – si ferma un attimo a fotografare. Completo grigio e scarpe in cuoio, ma anche camicie aperte su t-shirt band e sneakers, varsity jacket da mezza stagione, e quindi anche paltò scuri per i più freddolosi accanto agli smanicati a salsicciotti, gonne lunghe a pieghe ma pure calzoni leggeri e ovvio tute sdoganate dallo streetwear e impermeabili e spolverini sotto braccio, zip e tre bottoni, borse a tracolla, camicie a fiori, ballerine, occhiali scuri, ball cap… Alle spalle, da dove tutti provengono, la scheggia di Renzo Piano come la metafora di una stalagmite conficcata nel culo del cielo a suggerire, da quell’altezza spropositata, il gesto canzonatorio di Sordi delle aristocrazie liberate dalle rush hour agli ultimi non ancora ammessi alla signorilità delle masse: “lavoratoriiii!”.

E se fossero tutti soltanto figuranti? O mimi come nel film famoso di Antonioni? Ingaggiati per compiacere le masse in transito con contratto rush hour only?

Un quarto d’ora e diventa una meridiana che allunga la sua ombra in direzione opposta alla City ora di colpo deserta e allora si potrebbe anche solo restare a guardare il fiume che passa, decidendo di quale colore sia, fino ad azzeccare quello giusto, ma bisognerebbe essere bonzi eraclitei e non credere che esista altra scelta, in una Londra senza inglesi offerta in promozione come una birra senza alcol, nemmeno quella che si paventa timida al turista anch’egli in preda all’indecisione: sarà meglio fare prima la Torre o l’Abbazia, avendole entrambe in programma? Non essendoci che un prima e un dopo, nel percorso programmatico che tutto pre-vede, mi adatto ad andare controcorrente – senza ambizione d’esser per questo più consapevole di altri perché se oggi mi gratifico, come dicono, d’esser sostenibile domani avrò aperto una nuova via al sovraffollamento per lo stesso meccanismo delle partenze intelligenti che divengono intelligenti solo quando non lo sono più – là dove all’esercito dei pendolari si sostituisce quello dei turisti, ponte dopo ponte verso Westminster e il circuito del così-fan-tutti. E se chiudere le app può essere allora di aiuto al cazzeggiare disinteressato, anche scendere giù sul dock non mi conduce al mondo sottosopra quanto a una solitudine regolamentata dall’eco costante dei flussi normalizzati in alto. Presto mi trovo, allontanandomi dalla City verticale che aspirati i suoi impiegati, svuotata, riflette la sua assenza senza resti umani in transito come in una Casa degli specchi deformanti, costretto a fare i conti con me stesso, solitario ma clonato come nella matrice di un Agent Smith – forse addirittura con invidia scrutato come una presenza aliena da dietro i pannelli traslucidi da altri esseri simili solo in attesa davanti ai display di vestire lontano da qui, a loro volta, i panni del turista – o duplicato nelle sagome gialle in terra che a ogni incrocio – preoccupata Londra della mia incolumità di novello non avvezzo al cambio d’abitudine quanto della spesa necessaria a soccorrere l’eventuale stronzo che ha girato la testa dalla parte sbagliata – avvisano il forestiero di guardare a destra e a sinistra così che con lo sguardo in basso nell’indecisione il rischio è di finire investito quando vorrei semplicemente tirare dritto come un local che passa in automatico.

Non c’è verso di smarrirsi se a ogni blocco hanno messo un cartello, come quelli dei parchi a tema o dei centri commerciali, una mappa che disegna un cerchio a partire dall’indicazione You are Here – ma qui dove? e tu chi non essendo io il Doctor Who? – offrendosi non richiesta e quindi creando un bisogno mentre subdola ha già deciso di voler governare col mio di tempo che almeno fino a sera mi illudevo liberato (ecco tutto quello che trovi a 5 minuti da qui, suggerisce) anche lo spazio entro il quale altro non sono che un sorvegliato pallino in questo monoscopio apparentemente stanziale e che viaggia invece nel futuro, anticipando ogni mossa sulla scacchiera della mia indecisione, fino al prossimo cartello che prometterà altre meraviglie a patto che ognuno sia disposto a restare in questo girello grafico, a rinunciare a ogni personale scoperta e a condividere ogni esperienza, in un afflato inclusivo dove l’uguaglianza diventa un peso e la massa dei pedoni soffocante inviso overtourism.

Così, escluso pure il pallino blu di Google Maps nell’illusione di tornare individuo dotato di libero arbitrio e non puntino virtuale geolocalizzato con torcia blu digitale puntata in avanti, pallino che ho infastidito a sufficienza andando di proposito in senso opposto come una precaria cometa, al dunque seminando solo una scia di perplessità, mi riconcedo la chance di scoprire qualcosa di mio, fuori dallo sguardo di tutti, deviando appositamente dal fantasma di St Paul per rinculare verso il Tamigi mentre distrattamente mi ingegno su impulso di Cortázar a trovare un colore alle acque allo stesso modo suo che si inventò il “giallo leone” per il Rio de la Plata. E avendo deciso di rinunciare al mondo sotterraneo del Tube, e pure a quello didascalico di YouTube, prodigo di consigli non per andare ma per inevitabilmente tornare dove già qualcun altro è stato, come se non avere una meta non fosse già avere una meta, mi lascio passeggiare di pensiero in pensiero al ritmo mnemonico del live by the river dei Clash e di quel tempo passato a Londra nella mia giovinezza di neo laureato, senza mi venga alla memoria di quei giorni di grandi stupide speranze in cui cercavo anch’io la mia voce una giornata così splendida di sole, luminosa al punto da cancellare ogni stereotipo sulla Londra piovosa e nebbiosa e in attesa di un errore nucleare e non del climate change. Tanto che per supplire alla perdita del conforto del cliché, quasi sarei tentato di raccogliere l’offerta della ragazza della pubblicità che mi invita beffarda sul suo di Double-Decker a uso turistico for anywhere all day, think – dice – non più di 5 sterline e 25, e rassegnarmi al comodo tour al quale ancora, ostinato, mi picco di sfuggire.

Che Londra è mai dunque questa, oggi? Radiosa mentre si offre allo sguardo panoramico nel mezzo del Millenium Bridge che pare davvero come recita l’insegna della Tate “free and open to all”. E se il suo con questo sole fosse allora solo un disinteressato invito a camminare? E non il richiamo del pifferaio che chiama a raccolta i turisti persuadendoli che nel seguirlo si possa essere al contempo liberi tutti mentre l’unico a salvarsi è lo zoppetto che non tiene il passo? Andare dove non si tocca, può essere il nuovo imperativo? Costeggio la riva, allora, salgo e scendo, coltivando profili di lord imparruccati, guglie simmetriche, punte sovrastanti cupole, timpani condominiali, microfoni da radio hall anni Cinquanta, parallelepipedi sghembi come pezzi di vetro frantumati, rivisitazioni rossobrune di dock, lampioncini art déco, colonne mutilate a sorreggere il cielo, il vaso di Lansetti retrocesso a boomerang ma anche sirene, obelischi, occhiute cernie in ossidiana, cavalli alati su stemmi, demoni, draghi, sfingi… e cosa mai rappresenta il gesto di quella statua raffigurante un uomo in giacca e soprabito al braccio, indica qualcosa là a Sud, dove Londra forse ancora mantiene un carattere che sfugge all’infighettamento diffuso delle gentrificazioni, in mezzo alle torri in vetro retro verniciato o è la versione antropizzata di un gatto maneki nemo intento a chiamare a sé l’ultimo degli spettatori recalcitranti all’ego fallico delle archistar specializzate nel trasformare orizzonti in ecocardiogrammi?

Cosa manca al dunque in questa versione solare e perciò stranita di Londra alla quale è sottratto con gli abitanti proprio anche il tempo inteso come atmosferico, quello che fa scribacchiare su qualche inserto della domenica che “senza la fog, misterioso mantello, Londra non sarebbe una bella città”? Non siamo già vittime penitenti dello stereotipo portandoci dietro l’ombrello? Segni della storia e stilemi del futuro ma le tracce del presente? Oltre i cab versione pink che reclamizzano il fast fashion, le scocche pieghevoli di telefoni coreani, la playlist del rickshaw che abbina i monumenti ai magazzini Selfridges e al Museo delle cere Madame Tussauds con ironiche sinapsi, non è autentica allora l’impressione d’essere viaggiatori dell’inautentico, qui, ora, quando all’occhio si sovrappone gigantesco il London Eye e la città da deserta si ripopola sì ma di turisti in attesa fiduciosa del loro giro di giostra involontariamente tibetano? E saranno allora tipicamente londinesi le arachidi caramellate del carretto sul ponte di Westminster dove, nel 2017, l’amusement park si è tramutato nel teatro dell’orrore? E perché ha più successo il suonatore di zampogna in perfetto kilt scozzese del vecchio Big Ben la cui campana difettosa non si fila nessuno pur rintoccando puntuale ogni quindici minuti? Diventa solo richiestissimo sfondo per la foto davanti, accanto, dentro la cabina telefonica rossa, vintage più di quella venti metri più avanti e identica dove però non si fotografa nessuno preferendo i turisti la coda interminabile e paziente, a pensarci questa sì per assurdo più londinese dello scatto celebrativo, per il Post rielaborato dall’iPhone che avranno tutti nelle Stories.

Se un segno della Brexit c’è allora è in questa impossibilità di fare pipì nei bagni pubblici non avendo in tasca monete e occorre cercarsi un angolino nascosto a St James Park non volendo perdere un istante di questa giornata lottando per un posto in un pub, e con davanti solo il pomeriggio per tornare indietro direzione Shoreditch. Tocca quindi allontanarsi dalle truppe dei pellicani in posa e trovare sollievo sotto una quercia e poi mangiarsi in fretta un panino prudentemente portato da casa evitando le sdraio che sono lì mica per la benevolenza della municipalità – anche se per un attimo mi sfiora il pensiero di un welfare per improvvidi flâneur – piuttosto per occupare la ragazza di colore che le ha in gestione e se Londra, non oggi, fa la Londra probabile debba scalare dal mensile i giorni grigi a meno di trovare qualche cultore della Londra autentica con la nebbia magari pure col mito ermeneutico dei mimi di Antonioni che giocano a tennis. Così contendo un pezzo di prato inglese alle anatre più infastidite che curiose mentre questo angolo prospettico di parco con meccanismo a ingrandimento da blow-up diviene il racconto di Cortázar Le bave del diavolo e nel cespuglio poco distante immagino allora di trovare, come nel film al quale si ispira, il cadavere sì ma del reale: quello che si sottrae all’indagine proprio perché osservato.

Se allora Londra mette in scena la sua stessa rappresentazione sarà possibile sottrarsi a essa nel momento in cui ci si rassegna, quasi calamitati, per mancanza di tempo e incidentali occasioni, pur essendo predisposti alla casualità di un progetto serendipico, a essere ricondotti a un percorso che da Piccadilly mena a Leicester Square e poi a Soho e poi a Chinatown e poi a Covent Garden e poi…? E importa allora davvero Londra a chi la visita? O è solo il pretesto narcisista per mettersi in posa relegandola a fondale, a questo punto giustamente anche se artificialmente pittoresco, come l’anziana celebrità gonfia di botox accanto alla quale ci si immortala nei selfie? Se i comparti fotografici dei camera phone di nuova generazione sono in grado grazie all’AI di ottimizzare un’immagine sgranata, la famosa foto di Blow-up (1966) che confondeva la realtà a forza di ingrandirla restituirà al nostro sguardo un’immagine veritiera o soltanto la sua algoritmica ricostruzione artificiosa a questo punto esponenzialmente ancora più distante da ciò che credevamo di vedere? Non scopriremo piuttosto nitido e messo a fuoco proprio il cadavere della nostra singolarità nel mentre della realtà osserviamo, ricostruito assieme ai dettagli, soltanto un simulacro ideato per piacere a tutti?

Non siamo tutti allo stesso modo – ora che le Dr Martens le trovi in via Torino e le Digestive alla Slunga – in cerca di un London souvenir presto dimenticato, non cerchiamo al dunque proprio la Londra che cercavamo per dire di averla vista anche se già l’avevamo vista senza vederla? Interessa a qualcuno l’unico uomo seduto su una panchina nella City rintanata nei grattacieli, la ragazza coi capelli afro in attesa sui gradini a Soho, la coda dei clienti di Stüssy con i sacchetti di Supreme, il barbone capovolto in un piumino immacolato a King Cross, la vecchia che a Camden s’è vestita da popolana ma con le sneakers come la Maria Antonietta della Coppola, il ragazzo in completo grigio che fa di una centralina elettrica la sua soapbox costruendo un monologo a tema “Tourist Go Home” che dev’essere più esilarante di quello di uno stand-up comedian per le commesse brat uscite a vedere dai negozi di Oxford Street? Avrà un senso un libro di Joan Didion abbandonato accanto alla biografia di David Bowie? E questo mio ostinarmi a non prendere nemmeno un bus, perché mi parrebbe di salire su quello che mena un cockney per la Cerchia dei Navigli nello stesso momento in cui a San Francisco un milanese sale sulla vettura 1503 (più originale dell’originale non essendo mimetizzata dalla pubblicità), mi rivelerà qualcosa di più o di meno su Londra?

Non sono proprio le cornici laccate dei negozi una caratteristica londinese e il frame non è già il modo di circoscrivere il reale? Sarà più utile allora col linguista George Lakoff operare un esercizio di reframing a partire da noi stessi per uscire dall’impasse o rassegnarsi al fatto che Londra è ciò che tutti vediamo nella cornice che lei stessa si è data, e che la narrazione scelta – come il burrito spacciato per original british street food – può dirci molto di più oggi sull’identità di una presunta nativa originaria caratterizzazione?  Molto più istruttivo allora spostare il focus, studiare i turisti, invece che esserne infastiditi.

E se invece adottassimo l’atteggiamento del punk a Camden Town – dove mi spingo questa volta a partire dall’hotel di Shoreditch che in quanto volutamente swinging esibisce una moquette anni Sessanta ed è gestito da soli indiani che evidentemente pensano d’essere à la page dopo il David Copperfield di Iannucci protagonista Dev Patel nel mentre il quartiere ha già gentrificato il lettering di Ben Eine riqualificando la scritta Scary fino a far diventare cool anche il dormire sotto i ponti – e pragmaticamente constatassimo che le città altro davvero non sono che contemporanei parchi a tema, anzi a Meta tema visto che mettono in scena col beneplacito di Mr Zuck la propria riflessione su se stesse? Ti offro, sembra allora dire il crestuto epigono di pelle scura al fotografo che lo celebra dietro compenso, ciò che stai cercando in mancanza di Amy, Dappy e Graham Coxon in un patto privato che nella finzione sancisce una reciproca soddisfazione. Così il graffito sul vecchio ponte della ferrovia che diventerà la fighetta highline con gli alberelli e il parco giochi per futuri adulti integrati ha anch’essa un lettering colorato e controculturale ma inneggia al nuovo Camden Lock Village cbe ha già iniziato a riqualificare l’area col contributo estetico della stessa ditta di lifting che ha costruito lo Shard e che promette di mantenere la vibe del quartiere trasformandolo in una nuova vivace e instagrammabile destinazione davanti alla quale mettersi in posa. Qui dove si poteva immaginare una vita da poeti sfattoni e morire da piccoli, lottando per non essere coinvolti. Mentre io per sfuggire ai turisti entusiasti della sicurezza e della pulizia, gentrificati anch’essi, trovo la scappatoia per il reframing sotto un ponte e ciò che cerco lontano dai chiodi in finta pelle e dalle t-shirt finto trasgressive (“The Bitch is Back”): quattro vecchi spelacchiati werewolves coi denti meno sbiancati di quelli della vetrofania per nuovi prodotti healthcare che pare aver digerito Camden mentre gestiscono il giro del fumo per intraprendenti ragazzine catturate dall’estetica indie sleaze. Una parvenza di autentico che non rivenderò a nessuno. Solo letteratura, alla fine, prima dell’editing per i supermercati.

Esco dall’hotel rientrato dopo una cena in un ristorante spagnolo dopo aver pranzato in uno peruviano solo per uscire subito dopo. E al pub dove mi fermo per una stout – dopo aver valutato che il lunedì sera a Londra è come tutti i lunedì sera del mondo e non c’è molto da fare anche se a Shoreditch cercano di rilanciare il London Design Festival sul modello del Fuorisalone (ma senza prosecchino da offrire non vai lontano) – è già tempo per il ragazzo dietro al bancone di suonare la campanella dell’ultimo alcolico giro. Non faccio in tempo a pensare che questa usanza è il segnale di un’identità, qualcosa che forse non andrà perso, un suono distintivo che si tramanderà a dispetto delle ordinazioni sugli iPad, che un uomo si china dallo sgabello sotto il bancone, quel tanto per sfuggire alla vista del ragazzo. Venendo giù da Camden, prima di finire al ponte di Blackfriars dove un gruppo di compiti turisti non s’accorgeva di quanto a differenza loro se la ridesse il Frate Nero immortalato sul pub sorto dove c’era un convento, davanti al piccolo giardino di Tavistock Square mi sono accorto per caso di una targa rotonda con fondo blu che ricorda come in quella zona ma ovviamente non in quel palazzo avesse vissuto Charles Dickens, autore anche con lo pseudonimo di Uncommercial Traveller (in italiano “Viaggiatore disinteressato”) del racconto breve Gone astray (letteralmente “Fuori strada”, tradotto da Mattioli 1885 col titolo Perdersi a Londra) nel quale un bambino girovaga per la città prima accompagnato da un non identificato Qualcuno e poi da solo fino a trovarsi ad assistere a uno spettacolo alla fine del quale a uno spettatore a caso sarà regalato un asino, ponendolo in stato d’ansia perché non avrebbe la forza di rifiutarlo né tanto meno saprebbe cosa farsene, ansia che si dissolve solo constatando di non essere stato scelto. Una facile metafora della vita di ogni scrittore che ambisce e al contempo rifugge il desiderio d’essere pubblicato. Così ho ripensato a Pip e a come in fondo le grandi speranze in lui riposte non fossero state inevase: non averle realizzate era stato il suo modo di rivelarle come futili. Con aplomb invidiabile l’uomo al bancone vomita sul pavimento nell’indifferenza generale per poi resuscitare sullo sgabello coi gomiti di nuovo piantati di fronte alle spine. Un gesto identitario, sfuggito alla gentrificazione. Ordina la sua ultima pinta. Sarà Geoff Dyer di ritorno strafatto da un vernissage o solo il cinese di Sartre, la personificazione di ciò che andavo cercando?
Uscendo, sulla porta, noto un cartello che annuncia la ricerca di un barman.
Avanti il prossimo.
Quella idea di Londra, alla fine.

Testo e foto di Gabriele Nava. Il video, qui

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