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Allonsanfàn
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L’abbaglio: erano Mille, più Servillo, Ficarra e Picone

Erano mille, giovani e forti. Oddio, proprio tutti no: tra i mille arruolati per sbarcare a Marsala dal generale garibaldino Vincenzo Romano Orsini (Toni Servillo), ci sono anche lo sfortunato e zoppo Domenico Tricò (Salvo Ficarra), una vita da emigrante, lavoro, fatica, tutto per fare dei “piccioli”, tornare a casa e sposare la fidanzata di sempre; e Rosario Spitale (Valentino Picone) imbroglione in fuga dal Casinò di Venezia, beccato a fare il baro. Niente ideali, per loro lo sbarco è solo un passaggio verso la terra che gli ha dato i natali.

Anche Orsini è siciliano, di nobile famiglia palermitana devota ai Borboni. È in odore di stranezze, ha vissuto in Turchia, si mormora sia diventato seguace dell’Islam, legge i fondi di caffè, passeggia meditabondo e parla per sentenze al giovane idealista tenente veneto Ragusin (Leonardo Maltese).

Arrivati a Marsala, la disparità di forze con l’esercito borbonico è feroce e Garibaldi (Tommaso Ragno) s’inventa un escamotage per trarre in inganno il generale Von Mechel, fingendo una ritirata che in realtà riguarderà solo il manipolo di soldati guidato da Orsini.

Labbaglio (credit: Lia Pasqualino)

Spiace molto dover constatare una netta involuzione di Roberto Andò rispetto a La stranezza. “Stessa squadra non si cambia” non porta fortuna al regista, che qui trasforma in macchiette eccessive Ficarra e Picone, dialoghi e gag da Bagaglino, telefonati, senza guizzi, al ribasso rispetto alle loro potenzialità. L’intermezzo nel convento di suore – graziosa l’Assuntina (Giulia Andò) che poi tornerà in altre vesti – ha momenti da pochade che quasi “escono” dal film. Un dubbio sull’intera operazione, a dire il vero, s’insinua fin dalla prima scena, quando la colonna sonora parte subito col piede sull’acceleratore, roboante, eccessiva, didascalica.

Toni Servillo dovrebbe incominciare a rispondere qualche no, quando gli si domanda di fare se stesso, anzi, ovviamente l’iperbole del se stesso scenico: ieratico, frasi totemiche, silenzi eloquenti. Il suo Orsini («Quanto cerone! E il kajal gli arrossa persino gli occhi», commenta così una collega il PPP che per carità, forse solo lui e De Niro riescono a reggere, ma che qui è decisamente sprecato) è scritto con l’accetta, i dialoghi tra lui e il tenentino hanno sempre lo stesso schema: il giovane ingenuo parla, il vecchio saggio confuta.

Peccato perché i temi forti e giusti ci sono, e l’idea di far scoprire una pagina di storia poco studiata, quella retta parallela minore che sempre si cela dietro a una grande impresa, è buona. Vanificata dall’assenza dell’essenza stessa del cinema: far parlare le immagini, non ostinarsi a spiegare tutto con le parole, financo il titolo del film!

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