Ho incontrato Giulio Guidorizzi l’estate scorsa. Il racconto degli dèi faceva bella mostra di sé nell’edicola di Andrea, quella sempre aperta che accetta prenotazioni su whatsapp. Si trattava di un triste secondo giro di edizione, l’ultima spiaggia dell’ufficio marketing dei quotidiani in picchiata di vendite. Di norma manco li tocco quei libri, tanto è modesto il trio carta-stampa-confezione, ma avevo bisogno di consolarmi con un acquisto d’impulso; così, nonostante il metro lineare e passa di mitologia greco-latina, per mia fortuna non ho resistito e ho portato a casa pure Il racconto degli eroi.
Giulio Guidorizzi, di cui è attesa una traduzione dell’Iliade che spero di potermi permettere, racconta le storie degli dèi e degli eroi in modo completamente diverso. È un filologo che oltre a saper scrivere – problema vecchio come il cucco ma evidentemente non così facilmente risolvibile – affronta la mitologia greca e latina offrendoci insieme alla versione per così dire “ufficiale”, quella nota sin dall’infanzia, anche le varianti assai sorprendenti e significative di luogo e di tempo. È così possibile scoprire non solo le millanta versioni riguardo la morte di Odisseo, le iliadi e le odissee minori composte nei secoli, ma pure come le varianti fiorite nelle città della Grecia raccontano in modo incredibilmente diverso le vicende delle divinità e degli eroi.
Di grecisti, veri o allevati nelle scuole di scrittura, ce n’è uno sbadalucco: la produzione di testi, paratesti, sunti, vulgate per semi-deficienti e ultimamente pure “edizioni con i disegnetti” contribuisce in modo cospicuo alla salute dei bilanci. Guidorizzi non solo è un grecista DOCG ma sa pure scrivere, particolare di non secondaria importanza per chi ammannisce pietanze scientifiche. Scrive bene fors’anche perché è un antropologo: gli esseri umani sono l’oggetto dei suoi studi; lo dimostra anche nel suo ultimo lavoro Il lessico dei greci. Una civiltà in 30 parole (Cortina), una riflessione su come la coscienza greca continui a farci sentire la sua voce nonostante siano trascorsi duemilacinquecento anni.
Poche cose mi irritano più delle manchette di copertina, dell’amichettismo spericolato e vergognoso dei colleghi, per non parlare delle pubblicità degli uffici stampa. Ebbene, stavolta Raffaello Cortina scrivendo “Come e perché alcune parole hanno fatto la storia della nostra civiltà” ha fatto centro. Mai come questa volta il bla-bla pubblicitariese lascia il posto a un commento persino modesto e riduttivo: le 30 parole scelte e commentate da Guidorizzi sono la nostra civiltà. Parafrasando quel buffo signore di Napoli, è il caso di affermare che “non possiamo non dirci greciani”, spuri figli del mondo greco, la terra che ospitò la più straordinaria esplosione di intelligenza, coraggio speculativo e bellezza che l’umanità abbia mai conosciuto. Il lessico dei Greci è anche il nostro lessico, trasformato (e a volte deformato) dalle stratificazioni accumulate mentre compivamo quel percorso irregolare e accidentato che dopo infinite tragedie e abiure ci ha fatto essere ciò che nonostante tutto siamo: il posto meno schifoso, meno abbietto, meno irragionevole, meno incivile dell’orbe terraqueo.
Seguendo la lezione di Joan Didion scrivo queste noterelle per capire. Scrivere ti costringe a pensare e rileggere a prendersi la responsabilità delle scempiaggini che hai scritto. Tuttavia, temo che ci sia davvero poco da capire e invece molto da combattere. Ai nuovi “enti della reazione” (non chiamiamoli fascisti: il fascismo è un’altra cosa) che oggi si manifestano nello strapotere digitale, si affianca il lavoro distruttivo dei loro migliori alleati, i fanatici del woke; mentre i primi inondano il mondo di cazzate false, i secondi sono alacremente impegnati nella revisione del canone occidentale. Così, mentre i governati della Florida censurano i cataloghi delle biblioteche pubbliche, i paladini dell’inclusione espurgono Tom Sawyer e le cretinette del femminismo post-doc riscrivono l’Iliade, quell’opera indecente piena di feroci maschioni bianchi che si fanno la guerra. Ma davvero solo un frocio in purezza può interpretare un personaggio gay? Ma davvero solo un’interprete di colore può tradurre una poetessa nera? Ma davvero è un reato contro la morale affermare che le donne sono coloro le quali hanno (hanno avuto / avranno) le mestruazioni? Ma davvero (davvero, davvero) Shakespeare nel Mercante di Venezia rivela il suo lercio spirito antisemita?
Duemilacinquecento anni fa i Greci ebbero il coraggio (l’ambizione, la scostumatezza) di mettere il capino fuori dal Mytos e di affacciarsi nella vastità del Logos. Conquistando il secondo senza mai negare le meravigliose, aspre dolcezze del primo. Perché, come diceva quell’intellettuale prestato alla pubblicità, persino un bambino sa che du gust is megl che uan.
Nella foto in apertura, Odisseo in un particolare del gruppo marmoreo Polyphemus, Grecia, II sec. aev, Museo Archeologico Nazionale di Sperlonga