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Allonsanfàn
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ACAB su Netflix. Siamo uomini o celerini?

Siamo uomini o celerini? La domanda echeggia tra ambienti scuri e squallidi da caserma, bagnati da una luce giallastra, dove un pool di poliziotti anti sommossa si raduna e si veste da battaglia, caricandosi di caschi, scudi e sfollagenti prima di caricare (pardon, contenere) eventuali manifestanti – No Tav, tifosi del West Ham in trasferta a Roma, popolino che protesta per l’assegnazione di un appartamento comunale a una zingara… Non importa.

Siamo uomini o celerini? Di nuovo: non importa. Su tutto, forse, vince l’appartenenza, il gruppo, anzi il branco, e questo – loro sono poliziotti – sovente suggerisce la scorciatoia spiccia e illegale quando di mezzo è la propria famiglia, sia pure quella acquisita sul lavoro, a subire un’ingiustizia… Comunque: lo squallore e le sconfitte delle vite singole diventano schizzi di rabbia o di frustrazione sulla strada del branco quando c’è da gestire la rabbia e l’infelicità altrui.

Siamo uomini o celerini? Ma tutt’e due, certo: si spalleggiano tra di loro gli uomini, i veri uomini che per mestiere vanno in guerra. Nel branco c’è anche una donna, anche lei sola, anche lei con una vita sentimentale a pezzi, che sul corpo porta i segni delle percosse del marito. Anche lei vive in un appartamento buio con le persiane mezze abbassate (perché non ci si specchi dentro la troupe quando gira e…) perché il colore della serie ACAB è la penombra di un incubo realista sempre sul punto di diventare metafisico, persino kafkiano. Ma se diventasse metafisico tout court, forse sarebbe meglio perché ci toglieremmo decisi dallo scivoloso campo della politica di ieri, oggi e domani.

Lontano milione di anni luce dal linguaggio greve dei poliziotteschi destrorsi degli anni che furono, discosto per narrazione – siamo pur sempre in campo fiction – dai docu sociologici e dai servizi giornalistici su sbirri e zecche con contorno di attualissimi manganelli, qui per fortuna dimentichiamo anche i luoghi comuni lirico sentimentali dei pasoliniani in trance da Valle Giulia.

ACAB, tratto da un libro di Carlo Bonini, già fortunato titolo al cinema di Sollima jr, ora riarrangiato in serial per Netflix da Michele Alhaique, nuota annega a si salva in una sintassi noir da romanzo criminale e giunge al limite dell’horror – vedi per esempio l’inizio del sesto e ultimo episodio, dove risolviamo anche il più scontato enigma della storia: chi ha ridotto in fin di vita uno studente nel giorno in cui, anche per compensazione narrativa, uno del branco e rimasto paralizzato…

Tutto fatto bene. Compresi i cliché ottimamente scritti e girati. Alla fine, però, le migliori scene di ACAB sono le singole inquadrature: le facce dei celerini che escono da una oscurità caravaggesca. Quelle maschie di Marco Giallini, il gigantesco Mazinga, e di Adriano Giannini, il riottoso convertito alla legge del branco, e quella femminile e angosciata di Valentina Bellé.

Troppi cliché? Davvero tanti. Troppo scontata la morale “tutti colpevoli tutti innocenti”? Be’, sì, no ma… (riempite voi lo spazio dopo i puntini).

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