Una premessa è d’obbligo: come sono diverse le attrici francesi dalle nostre, che in qualsiasi film hanno quasi tutte l’aria da starlette televisive! Guardate Charlotte Gainsburg, arrivata ai 53 anni con la naturalezza della collega di scrivania: un volto normale, s’è tenuta le sue labbra sottili, le tettine da magra, le rughette. Così, quando il regista Benoît Jacquot la sceglie per interpretare Cléa, consueta mamma-moglie simenoniana, sembra davvero l’elegante proprietaria di un negozio di ottica, che ha sposato il taciturno Pierre (Guillaume Canet), professore di matematica del liceo cittadino.
Il caso Belle Steiner è tratto da uno dei romans dur di Georges Simenon, La morte di Belle (Adelphi). Una coppia di coniugi senza figli ospita in casa una ragazza diciottenne, figlia di un’amica di lei. La ragazza, molto bellina e sessualmente vivace – ma lo si scoprirà solo dopo – muore strangolata, mentre in casa c’è solo il proprietario, l’ultimo ad averla vista viva, che non s’accorge di nulla. Logico che l’uomo diventi il primo sospettato, anche perché, contrariamente alla moglie, rifugge gli obblighi sociali, parla poco, e passa gran parte del suo tempo in uno sgabuzzino, a risolvere quesiti matematici. Tanto basta a farne un tipo strano agli occhi della cittadina di provincia con i suoi riti e cliché.
La trasposizione temporale dagli anni Cinquanta ad oggi – Simenon scrisse il romanzo nel 1951 – rappresenta un problema per il film: se un tempo poteva accadere credibilmente non si trovasse lo straccio di un indizio, oggi che anche i più sprovveduti tra noi conoscono i mille trucchetti di Ris et similia su reperti e scena del crimine, l’improbabilità è dietro l’angolo. Invece di indizi, strano, molto strano, non se ne trovano nemmeno nel 2024, quindi Pierre si vede costretto a rispondere a infiniti interrogatori per dimostrare la sua innocenza.
Qui subentra il disvelamento del suo carattere, che solo di primo acchito può sembrare poco contemporaneo, ma in realtà è eterno, come tutti i caratteri di Simenon: nessuno come lui ci ha raccontato storie di uomini imperscrutabili, che lasciano la vita gli scorra davanti, mettendo in moto ben poche energie visibili per indirizzarla verso una meta precisa.
Ovviamente, individui simili nascondono un mondo segreto e inviolabile, proprio come Pierre, cui Canet dona con efficacia una sorta di ermetismo emotivo, d’apparente indifferenza verso la morte di Belle, ma anche di scarso vigore nel difendersi dai sospetti.
Uomini come lui s’appoggiano a una moglie materna, che si faccia carico dell’azione, mentre loro coltivano, passivi, segreti che spesso hanno a che vedere proprio con un rapporto irrisolto col femminile.
Gainsburg e Canet sono molto bravi nel disegnare una coppia che si regge su differenze evidenti, con metafore lampanti: lei vende occhiali per vederci chiaro, lui studia formule che per i non addetti ai lavori sono quanto di più oscuro esista. Eppure gli escamotage narrativi per storicizzare la vicenda – vedi l’accenno a video su TikTok per disegnare l’idea di una fanciulla disinibita – hanno qualcosa di forzato, come se la sceneggiatura avesse fatto un passo indietro, e il regista si fosse affidato troppo al livello alto dei suoi attori.