Apri la prima pagina e sei già lassù, a 400 chilometri di altezza dalla Terra, un pesciolino chiuso in quell’acquario cosmico che è la Stazione spaziale internazionale, insieme ad altri sei astronauti (quattro uomini e due donne) e non sai come hai fatto a trovarti improvvisamente dietro a quei finestrini e a osservare il tuo pianeta così distante e incredibilmente colorato e bello, ma è la magia che fa la scrittrice inglese Samantha Harvey nel suo libro – difficile definire che cos’è esattamente, non è un saggio, non è un romanzo, non ha trama – Orbital (NN editore) che non a caso ha vinto il Booker Prize 2024.
Così, eccoci a galleggiare tra le stelle e il Sole e la Luna, inseguendo ogni giorno innumerevoli albe e tramonti perché la casa spaziale compie 16 orbite quotidiane intorno alla Terra, una ogni 90 minuti, 45 minuti alla luce solare e 45 all’ombra del pianeta, una sconcertante perdita di nozione del tempo, con giorni e notti che si alternano a ritmi innaturali, con corpi volanti in spazi ristretti e l’infinito davanti agli occhi, corpi che dormono in piedi o appesi a testa in giù come i pipistrelli, anche se il concetto di giù e su, in assenza di gravità, non ha più molto senso.
Racconta, Harvey, che per scrivere questo libro, iniziato ai tempi del lockdown, ha letto e studiato tantissimo, e certo si sente nella precisione dei dettagli e delle descrizioni, dentro e fuori la stazione cosmica, ma quello che nessuna preparazione può spiegare, perché si tratta di alchimie e incantesimi possibili solo a chi scrive in stato di grazia, e qui la scrittura è superlativa, è la capacità di evocare un dimensione così arcana come la vita in una base orbitante, dove tutto è diverso e difficile e complicato ma anche così ipnotico e ammaliante da volerci restare per sempre.
Perchè quello che c’è in basso (scriviamo “basso” ma capite che non è davvero così) è uno spettacolo di struggente bellezza: una sfera luminosa dove le brutture che abbiamo creato da che ci siamo “evoluti”, cemento, costruzioni, megalopoli, foreste disboscate, montagne sfregiate, inquinamento, non si scorgono più, e si vede invece un eden azzurro di oceani immensi, verde cupo o chiaro di campi e foreste, ocra e giallo di deserti, bianco di nuvole che corrono, si addensano, creano uragani e tifoni, e poi si sparpagliano di nuovo come fili di cotone, finchè arriva il buio e tutto il pianeta brilla di luci come un gigantesco presepe notturno.
Una visione che toglie il fiato, alla quale, nonostante le 16 orbite quotidiane, non ci si abitua mai, e alla fine il pensiero comunque torna lì, a com’è possibile che gli esseri umani stiano sistematicamente rovinando un gioiello cosmico così unico, stiano – pezzo dopo pezzo- massacrando tutti questi paesaggi belli come un dipinto di Turner, le altre forme di vita, noi stessi.
Non è un saggio, non è un romanzo, il libro di Harvey è una ballata per la Terra, senza morali né prediche però, un cantico d’amore lieve e potente come quello di San Francesco. Quando arriviamo all’ultima pagina, siamo diventati come i sei astronauti che, pur avendo ogni giorno nostalgia del loro pianeta e ogni notte sognandolo, non vorrebbero davvero scendere, non oggi, neppure domani, pur di continuare a rimirarlo ancora un po’, un palloncino che danza nell’universo, il più fragile, il più bello di tutti.
(Credit: Samantha Harvey (4×5 cropped) by Luminish is licensed under CC BY-SA 4.0.)