Tra i poeti beat, tra Ginsberg il Kerouac in versi e Ferlinghetti, quest’ultimo era quello che amavo meno. Come Nash in Crosby Stills e Nash (senza Young). Perché era un sempliciotto, in confronto agli altri due, uno come il barbuto Allen che tuonava autoproclamandosi King of May e reincarnazione di Whitman e Blake, l’altro – Jack – che aveva il blues dell’ubriaco.
Ma Larry, nel librino che avevo comprato, il Guanda bianco di Coney Island of My Mind (oggi credo minimum fax), nella stessa collana dove riposava la predicazione de Il profeta di Kahlil Gibran (grandissima patacca), Larry Ferlinghetti dicevo, era il più comprensibile dei poeti della Beat Generation, non sembrava tirarsela, con i suoi testi lunghi dai versi brevi, ripetitivi e chiari, luminosi, come se avesse tirato su una clair metaforica – forse quella della sua libreria City Lights a San Francisco – su quello che gli capitava intorno nel mondo… Non era il mio preferito, dicevo, ma per pura spocchia: era infatti l’unico che un po’ capivo, gli altri chissà, e mi trasferiva dalle sue pagine il suo “sense of wonder”, la speranza – come diceva – di una rinascita della meraviglia.
Qui sotto qualche verso di The Dog, un Ferlinghetti-cane a spasso…
Il cane trotterella libero per strada e ha la sua vita da cane da vivere e su cui pensare riflettere toccando e assaggiando e provando tutto indagando su tutto senza far falsa testimonianza un vero realista con una vera storia da raccontare e una vera coda con cui raccontarla una vera vita da abbaiare cane democratico impegnato nel reale con qualcosa da dire sulla realtà e su come vederla e su come ascoltarla con la testa inclinata di lato agli angoli delle strade come se stesse per farsi scattare la foto per i dischi Victor ascoltando La voce del Padrone e guardando come un punto interrogativo vivente dentro il grande grammofono della sconcertante esistenza con il suo meraviglioso corno cavo che sembra sempre pronto a far sgorgare qualche risposta vincente a tutto