La sera del 9 marzo 2020 Giuseppe Conte ha annunciato agli italiani che non c’era più tempo. Troppi malati, troppi morti. Il Paese doveva fermarsi, dovevamo chiuderci in casa. Abbiamo scoperto questa parola, questa dimensione esistenziale: il lockdown.
Ci si stranisce a rievocare quel momento, a un anno di distanza. Pare infinitamente lontano, sfiancati come siamo, dopo sessantanove giorni di chiusura totale, sette mesi di stop a singhiozzo, e distanziamenti che i vaccini non sembrano ancora poter sbaragliare.
Come leggere questa emergenza? C’è davvero una lezione da trarre? Possiamo davvero tornare al “come prima”? E lo vogliamo davvero? A queste e diverse altre domande prova a rispondere un libro, dal titolo bellissimo In un tempo abbastanza lungo (San Paolo) di Giampaolo Nicolais, psicoterapeuta, professore associato di psicologia dello sviluppo all’università La Sapienza di Roma.
Sono tante le pubblicazioni uscite in questi mesi che hanno puntato all’analisi, al bilancio dell’esperienza pandemia, ma questa è diversa sotto parecchi punti di vista. È diversa perché non propone ricette ma offre una testimonianza, a volte anche molto intima. Come in un piano sequenza, capitolo dopo capitolo è possibile guardare questo anno di Covid, che tutti abbiamo vissuto come una cattività più o meno tollerabile, focalizzandoci su alcuni passaggi di questa complessità, trovando significati fondamentali in una quotidianità che ci ha disarmati, livellati, storditi.
Non è un caso che il titolo faccia riferimento a un breve saggio di Robert Louis Stevenson, On the enjoyment of unpleasant places, e il cielo sa se le nostre case, a volte, in questi mesi sono state “spiacevoli” per la tensione che vi aleggiava, per la solitudine straziante o l’eccessiva densità abitativa a cui ci hanno costretti.
Per sopravvivere è stata necessaria (o sarebbe stata necessaria), sempre citando Stevenson, una certa “disciplina dello scenario”, ovvero la capacità non di adattarsi ma di avere uno sguardo “trasformativo” su quello scenario. E dunque, sembra suggerire Nicolais, se quella stessa disciplina ci permettesse di mettere a fuoco qualcosa di più del nostro appartamento? Se ci permettesse di fare una revisione del nostro stile di vita?
A cominciare, per esempio, dalla questione dell’ansia. Ansia epocale, ansia familiare, genitoriale, individuale. Uno stato che – anche prima della pandemia, figuriamoci dopo – ci costringe al controllo, a non lasciare mai la presa. Per questo uscire dal trauma della pandemia, dopo che il pensiero magico dell’#andratuttobene è miseramente evaporato, non è per niente facile.
In un tempo congelato, in un futuro che guardiamo ancora a metà tra l’inquietudine e la rassegnazione, c’è da restare paralizzati, statue di sale come la moglie di Lot nella Bibbia, condannata per il suo “voltarsi indietro” a contemplare la distruzione. L’autore cita la meravigliosa poesia della Szymborska: Guardai indietro, dicono, per curiosità / ma potevo avere, curiosità a parte, altri motivi. / Guardai indietro rimpiangendo la mia coppa d’argento. / Per distrazione – mentre allacciavo il sandalo. / Per non dover più guardare la nuca proba di mio marito, Lot.
I versi continuano, perché ci sono mille e più motivi per restare fermi, per dire “preferirei di no”, come Bartleby nel romanzo di Melville. Eppure, avverte lo psicologo, questa immobilità indifferente diventa sciatteria verso la vita, è assenza di cura, è paralisi. Si può vivere così? Certamente quest’anno è stato un tempo abbastanza lungo per capire che è ora di uscire da questo limbo. È ora di recuperare la consapevolezza del compito di ciascuno su questa terra, per ritrovare noi stessi e la nostra capacità di stare in relazione con gli altri. Perché i nostri figli non sono “troppo fragili” per affrontare la vita, ma richiedono buoni esempi e presenza e sincerità. L’emergenza ecologica esiste, la morte esiste, il tempo vuoto esiste. Questi possono (devono) essere tutti inneschi per una “rivoluzione dello sguardo”: insegnare a rispettare la terra è possibile; accettare la ferita narcisistica della morte per capire che il tempo che ci è dato è prezioso; “stare a maggese”, ovvero mettersi in stand by, abitare la noia come un tempo preparatorio a nuove creazioni, è una cosa bella e fondamentale per la salute mentale.
Chiudiamo il cerchio di questo anno terribile con un piccolo, prezioso pensiero: il tempo, Kronos, è passato un giorno dopo l’altro. Può andare sempre così, fino alla fine dei nostri giorni oppure, conclude Nicolais, questa grande paura collettiva ci insegna a comprendere meglio Kairos, la visione soggettiva del tempo, del momento in cui siamo presenti a noi stessi e godiamo della presenza, della compagnia, dell’incontro con l’altro. E in questo incontro, in questo non sentirci soli, c’è un senso, un compimento, una scintilla di realizzazione dell’esistenza.
Il libro. Giampaolo Nicolais In un tempo abbastanza lungo (San Paolo)
Foto in apertura: “Loneliness” by Gwenaël Piaser is licensed under CC BY-NC-SA 2.0